Andare in guerra per una nuvola?
L’attualità dei tragici greci non è in discussione. Diversamente, che classici sarebbero? Ma per i tempi che stiamo vivendo, tempi di guerra, le loro opere risultano ancora più attuali. Sì, perché la triade Eschilo-Sofocle-Euripide scrisse i suoi capolavori in un’Atene sconvolta dalla prima “guerra mondiale” dell’era antica, da cui le loro tragedie vennero inevitabilmente influenzate. Qui il focus è sul terzo, Euripide, che vissuto tra il 486 e il 406 a.C., oltre che contemporaneo alle ultime battute del conflitto che vide schierarsi compatta la grecità contro il giogo persiano (494-479 a.C), fu diretto testimone della guerra scoppiata nel Peloponneso, non più stavolta contro un nemico comune, ma tra le rivali Atene e Sparta (431-404 a.C).
In questo contesto che vide la democratica Atene sempre più sguarnita di alleati e perciò destinata a soccombere ai colpi di stato favorevoli all’oligarchia di cui era campione Sparta, il pacifista Euripide lottò con le sole armi a sua disposizione: la propria arte. E lo fece con coraggio, senza nascondere la sua opposizione allo stato di emergenza imposto dai fatti bellici, disseminando le sue tragedie, almeno quelle pervenuteci, di vibranti appelli contro gli orrori della guerra, un male per tutti – vincitori e vinti. Lo fece attraverso voci di donne come Ecuba, Andromaca, Elena e altre eroine dell’epopea troiana; donne, quindi tradizionali custodi della vita in una società maschilista, le più colpite dalla brutalità di un conflitto: «Folle chi rade al suolo le città, e i templi e le tombe ne abbandona, sacro asilo dei morti: presto o tardi pagherà molto care le sue colpe»; «E voi, città che potreste sottrarvi alle sciagure grazie alla parole, risolvete le situazioni non con i discorsi, ma con la guerra».
Non fu ascoltato, Euripide, e l’appassionata denuncia con cui intese muovere a ravvedimento gli animi dei suoi concittadini cadde nel vuoto. Del resto, come autore tragico era meno amato e capito dei predecessori e rivali Eschilo e Sofocle in quanto i suoi eroi ed eroine si misurano con un quotidiano sempre più lontano dagli dèi, sembrando così tradire le premesse rituali di un genere legato alle radici del sacro. Postuma invece la sua fortuna, che ne fece, lungo i secoli, il più letto e il più conosciuto dei tre grandi tragici greci. Ed è grazie alla “modernità” delle sue opere che il suo monito antibellicista continua a interpellare le coscienze anche di noi uomini del XXI secolo.
Emblematica in tal senso è Elena, che messa in scena nelle Grandi Dionisie del 412 fa parte delle diciassette tragedie euripidee pervenuteci, ora pubblicate da Marsilio nella traduzione di Angelo Tonelli. Che Euripide abbia una vera predilezione per il personaggio e il mito di Elena lo denota il fatto che in sei drammi cita ben quaranta volte la figlia degli amori di Zeus con Leda. In questo che la vede protagonista, attingendo a una tradizione già cantata da Stesicoro, ci presenta una Elena diversa dalla donna fatale, causa scatenante della guerra tra greci e troiani, che abbandonata la reggia di Sparta e il legittimo sposo Menelao, ha seguito l’amante Paride in Frigia. In realtà, quella giunta a Troia e ripresa da Menelao dopo la distruzione della città è una immagine fatta di aria: così ha stabilito Era, la consorte di Zeus ostile a Paride per essere stata da lui esclusa nel famoso “giudizio” di bellezza.
Quanto alla Elena in carne ed ossa, rimasta sempre fedele allo sposo, da Ermes era stata trasportata in Egitto. E proprio qui ripara anche Menelao, che dopo il naufragio della nave che lo riportava in patria insieme all’immagine eterea di lei ritrova quella vera presso la reggia del defunto re Proteo: dimessa, umile, disperata perché il nuovo re Teoclimeno, succeduto al padre, intende farla sua; ben diversa, quindi, dalla superba donna consapevole del suo fascino. La ritrova, sì, ma la crede un sosia dell’altra, il cui simulacro s’è intanto dissolto nell’aria.
Quale la verità? Solo Teonoe, la sorella veggente di Teoclimeno, è in grado di sciogliere ogni dubbio del re di Sparta, determinando col proprio intervento la fuga rocambolesca degli sposi ritrovati, riconciliati e quindi sottratti alle pretese del re d’Egitto dall’apparizione dei Dioscuri, i fratelli divini di Elena: finale sorprendente di un dramma (o meglio tragicommedia), che non avrà mancato di spiazzare gli ateniesi, abituati alla versione tutt’altro che “innocentista” del personaggio.
Dove l’avversione dell’autore per la guerra viene chiaramente espressa è nel dialogo tra i due protagonisti e un sopraggiunto messaggero (uno dei compagni superstiti di Menelao, disperso lui pure in Egitto). Messaggero: «Non fu lei, dunque, a causare le pene che abbiamo patito a Troia?». Menelao: «No, non fu Elena. Ci hanno ingannato gli dèi: avevamo tra le mani l’immagine luttuosa di una nuvola». Messaggero: «Che dici, abbiamo sofferto invano per una nuvola?». Domanda che rimbalza fino a noi: quanti popoli, infatti, lungo tutte le epoche del nostro pianeta, hanno sofferto e tuttora soffrono a causa della “nuvola” creata dalla mente malata di imperialismo del despota di turno?
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