Ancora guerra alle porte di Damasco
In Occidente sono in molti quelli che pensano che la guerra in Siria sia finita. Per gli abitanti del Ghouta orientale, invece, continua senza sosta da quasi 7 anni. Anzi, con l’inizio del nuovo anno è ancora più viva. Nel patchwork che è diventata la Siria, quest’area di poco più di 100 kmq è rimasta una delle ultime roccaforti dei cosiddetti ribelli: grossomodo un rettangolo di 12 km x 9 km circondato dalle postazioni dell’esercito governativo, ad una manciata di chilometri dalla capitale siriana (è praticamente alla periferia est di Damasco), dove abitano anche 400 mila civili, non solo parenti dei combattenti.
Una guerra di nascondigli, tunnel artigianali e missili più o meno hand-made (realizzati in proprio), lanciati sulla parte governativa per allentare la tensione dopo i bombardamenti aerei russi o gli obici dell’artiglieria. Ma questa è anche una guerra fatta di bambini malnutriti, di fame, di mancanza di tutto (un chilo di riso costerebbe 18 euro al mercato nero, l’unico che ha qualcosa da vendere), di malati messi in fila a indicare, a seconda del numero conquistato, la speranza più o meno vicina di uscire dalla sacca del Ghouta orientale.
I gruppi che combattono contro i governativi, ormai, non hanno più possibilità se non quella di combattere o di trasferirsi più o meno clandestinamente all’estero, che si chiamino Ahrar al-Cham, Fateh al-Cham o Jaich al-Islam. Dopo quattro anni di assedio e, soprattutto, dopo l’intervento russo che ha rovesciato la situazione sul campo, non c’è alcun futuro immediato in Siria per i gruppi jihadisti o per l’Esercito libero (un tempo abbondantemente finanziato dalla Cia), neppure se dovessero arrendersi. Al massimo possono forse sperare di trattare un trasferimento in un’altra delle due sacche rimaste, probabilmente in quella più grande di Idlib a ridosso del confine turco di Antiochia, dove i combattimenti per il controllo del territorio si svolgono tra jihadisti filo-turchi e l’ex fronte al-Nusra legato ad Al-Qaeda, sotto il controllo minaccioso dell’esercito turco ossessionato dal timore che i curdi del Rojava approfittino della situazione… Un altro incubo, insomma.
Forse non basta una laurea in scienze politiche per capirci qualcosa in questa cosiddetta pace siriana a tessere di mosaico prodotta dalla de-escalation di Astana, l’accordo fra Russia, Iran e Turchia che ha di fatto messo fuori gioco l’Onu. Ma era evidente che, dopo aver in qualche modo eliminato il Daesh, prima o poi anche gli altri nodi sarebbero giunti al pettine. Senza il controllo di quest’area alle porte di Damasco la “vittoria” governativa sarebbe inaccettabile, e il Ghouta orientale potrebbe rappresentare per i quasi-vincitori un pericoloso “tallone di Achille” (come lo definisce in questi giorni il quotidiano francese Liberation).
Così, due giorni dopo Capodanno sono ripresi i raid aerei e i tiri di artiglieria e come al solito si discute puntigliosamente se le vittime siano islamisti o civili o se si tratti di poche o molte decine di morti. Naturalmente tutto avviene nel rispetto degli accordi stabiliti lo scorso anno fra le potenze regionali (Iran e Turchia da un lato, Israele e Arabia Saudita dall’altro) e quelle internazionali (Russia e Usa), con la mediazione, a seconda dei casi, di alcuni Paesi terzi locali come la Giordania e l’Egitto.
Tutto questo, secondo gli auspici del presidente russo Putin, per arrivare in buona posizione al traguardo della Conferenza di Sochi (sul Mar Nero, in Russia) prevista per la fine di gennaio. L’intento sarebbe quello di concordare fra le parti la creazione di un “Congresso nazionale” che metta intorno ad un unico tavolo governo siriano, opposizioni e società civile. Per ora le opposizioni armate e 120 gruppi della società civile (Working Group for Syria) hanno detto che non parteciperanno alla convocazione. Salvo ripensamenti dell’ultima ora.