Anche l’esercito israeliano sembra allontanarsi da Netanyahu

L’analisi e l’appello (13 aprile, Tg2000) di mons. Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, sulla condizione dei civili di Gaza è chiaro: «È molto difficile prevedere cosa accadrà a Gaza, vediamo cosa sta accadendo ora, c’è molto non detto… Diciamo che comunque è una situazione drammatica, catastrofica, vergognosa, dobbiamo dirlo, dove la dignità delle persone, di quei 2 milioni e 300 mila persone, non è tenuta in minima considerazione». Dobbiamo – prosegue il cardinale – tenere «alta l’attenzione nostra ma anche quella di tutte le Chiese del mondo, di tutti quelli che ci vogliono ascoltare, sulla gravità di quello che sta accadendo».
Il governo israeliano continua a sostenere che per liberare i 59 ostaggi israeliani (forse metà dei quali già morti), occorre prima eliminare Hamas. Ma dal punto di vista di Hamas, non c’è evidentemente nessuna intenzione di arrendersi, perché la resa e la preannunciata deportazione sarebbero la definitiva fine della causa palestinese. Non solo a Gaza, anche in Cisgiordania.
In questo stallo mortale, l’elemento nuovo, emerso alla fine di marzo, è l’esercito israeliano (Idf), che si starebbe sempre più dissociando dalla “narrazione” bellicista del governo ultra-sionista di Netanyahu, che in Israele tutti ormai sanno essere sostenuto da meno del 30% dei votanti.
Mille riservisti dell’aviazione sono stati i primi, ma non gli unici, a firmare un documento pubblicato dai principali quotidiani israeliani e internazionali. Affermano che «salvare ostaggi civili e soldati è un imperativo morale fondamentale». Ma soprattutto aggiungono che secondo loro oggi «la guerra serve principalmente interessi politici e personali, piuttosto che rispondere a reali esigenze di sicurezza nazionale». Denunciano inoltre i tentativi di mettere a tacere le voci dissenzienti, e respingono la crescente intolleranza verso chi esprime opinioni contrarie alla linea ufficiale del governo.
In un articolo apparso su Haaretz il 14 aprile, si sostiene che ai mille firmatari dell’aviazione se ne starebbero aggiungendo molti altri, sia soldati che ufficiali, riservisti e non, che appartengono all’intelligence militare e civile, corpi corazzati, paracadutisti, ecc. In un altro articolo di Haaretz si parla dell’adesione di oltre 3.500 accademici favorevoli a trattare per la liberazione degli ostaggi e ad un immediato cessate il fuoco. Secondo il magazine progressista +972 (molto seguito all’estero e anche da non pochi arabi israeliani) almeno la metà dei circa 200mila riservisti richiamati non si starebbe per vari motivi presentando all’appello. È utile ricordare che l’esercito israeliano è composto da circa 170mila soldati di leva o di carriera e da quasi mezzo milione di riservisti, cioè di veterani, che possono essere richiamati fino all’età di 40 anni, alcuni fino a quella di 49.
Intanto l’operazione avviata dal governo dopo la ripresa dei bombardamenti (18 marzo) nella Striscia di Gaza si sta configurando sempre più come un piano di controllo totale del territorio. In particolare, la cosiddetta “zona cuscinetto” di 300 metri dentro il confine della Striscia sta diventando una kill zone di 1-1,5 Km, con distruzione sistematica di ogni cosa (anche gli edifici in rovina vengono ridotti in polvere e pietrisco): si tratta di una fascia che rappresenta il 15% dell’intero territorio palestinese, e soprattutto il 35% della già insufficiente area agricola.
Di questa operazione si è avuta notizia dalle testimonianze di soldati israeliani (poi confermata dai satelliti) che lo hanno raccontato a Breaking the Silence (BtS, una ong con sede in Israele). I soldati ne hanno parlato a condizione di anonimato, e BtS ha recentemente pubblicato online un’inquietante relazione-reportage intitolata: The perimeter: soldiers’ testimonies from the Gaza Buffer Zone 2023-2024. Una testimonianza emblematica, ripresa dal Guardian di Londra, è di un riservista arruolatosi volontario dopo le stragi e i rapimenti di Hamas del 7 ottobre 2023: «Mi sono arruolato perché ho pensato: “Loro ci hanno uccisi e ora noi uccideremo loro”». Ma il soldato ha poi proseguito: «Ho scoperto che non stiamo solo uccidendo loro [i terroristi], stiamo uccidendo le loro mogli, i loro figli, i loro gatti, i loro cani. Stiamo distruggendo le loro case…».
La settimana scorsa, un ex premier israeliano, Ehud Olmert, oggi quasi 80enne, ha rilasciato un’interessante intervista a Roberto Cetera di Vatican News, in cui riconosce che di strada per risolvere il secolare conflitto Israele-Palestina ce n’è solo una: quella dei “due Stati”: «Se c’è qualcuno che pensa che, a parte le ridicole ed irrealizzabili deportazioni di massa, ci sia un’alternativa credibile ai due Stati, la dica. Io non ne conosco. E penso che il piano su cui lavorai nel 2006 con Abu Mazen sia ancora oggi praticabile, con qualche piccolo aggiustamento… Ma, proprio perché non sono un utopista, mi rendo ben conto che oggi la soluzione dei “due Stati” richiede preliminarmente un ricambio di leadership in entrambi i campi».
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