Floyd: anche l’Asia contro razzismo e povertà
Sono al confine tra il Myanmar e la Thailandia, una zona montagnosa molto bella e interessante, e mi trovo, stamattina, a leggere le notizie che arrivano da tutto il mondo riguardo alle manifestazioni in USA e molte altre città del mondo dopo la morte di George Flyod. Rimango, come penso tanti di noi, impressionato, nel vedere il lungo video che ha portato all’uccisione di Flyod: quanta disumanità e crudeltà per un uomo ormai a terra e inerme che implorava pietà.
Una pietà che gli è stata negata e che ha sconvolto le coscienze di milioni di persone. «Perché tutto questo? – ci chiediamo in molti. – Perché tanto Male?». Eppure non è il solo caso non solo negli Usa e in altre parti del mondo.
In Thailandia esiste il caso eclatante di Porlajee “Billy” Rakchongcharoen che dal 2014 è misteriosamente sparito, dopo essere stato arrestato e incarcerato presso una stazione delle guardie forestali da cui non è mai uscito, ma “svanito nel nulla”. Un fatto che getta molte ombre e dubbi sul sistema giudiziario thailandese. L’accusa era di aver preso del miele selvatico nella riverva naturale di Kaeng Krachan. In realtà Billy, era un fervente e scomodissimo attivista per i diritti del suo popolo, i karen: uno che lottava per la sua gente affinché avesse uno spazio decente per vivere; uno che era contro la corruzione e le mazzette degli ufficiali della forestale e che denunziava le innumerevoli appropriazioni indebite e le altre malefatte del capo del parco naturale, Chaiwat Limlikit-aksorn e dei suoi complici: Bunthaen Butsarakham, Thanaset Chaemthet e Kritsanaphong Chitthet. Tutti e quattro sono stati formalmente accusati di omicidio volontario e occultamento di cadavere dal reparto d’investigazione speciale della Thailandia, il DSI, ma poi scagionati dal pubblico Ministero, che non ha voluto formalizzare un’accusa ufficiale contro i quattro ufficiali nonostante le prove. Una vera ingiustizia, ma chi combatterà per aiutare i karen a trovare giustizia?
Il grido: “Non riesco a respirare”, di manifestanti che viene ripetuto ormai in centinaia di città del mondo, è un segno palese che qualcosa sta cambiando e che la morte di George Floyd non è stata vana. Giocatori di varie discipline sportive nel mondo che si mettono in ginocchio ad imitazione del poliziotto Derek Chauvin sul collo del povero Floyd (8 minuti e 49 secondi).
Oggi molti marciano pacificamente (e non), insieme anche a ‘buoni poliziotti’ che s’inginocchiano in segno di protesta contro questo ignobile crimine. A Bangkok ieri, c’è stata una simbolica manifestazione virtuale, via zoom. Tokyo, Seul, poi la Nuova Zelanda: la gente scende in piazza anche ad est del mondo per protestare.
È come se nel mondo una nuova coscienza dei diritti umani stesse prendendo piede. Sono impressionato perché il luogo dove mi trovo soffre di molti “Non posso più respirare”, declinato in molti dialetti e detto in molti modi o sfumature. Io lo sento dire nelle lingua karen, monh, vietnamita, birmano, akha, lisu e quante ne possiamo trovare nelle centinaia di etnie della regione dove vivo: lo sento ripetuto per gli innumerevoli problemi che i poveri devono affrontare e subire: “ho fame”, oppure “ho sete” oppure “ho bisogno di un antizanzare, di latte per i miei bambini, di olio per cucinare, di soia, di pantaloni, di gonne, di indumenti intimi”.
Ogni volta che incontro questa gente è uno schock incredibile. È come se sentissi ripetere all’infinito: «Ho bisogno d’istruzione, di una mascherina, di disinfettante». E poi: «Non posso respirare per l’aria inquinata di questa fabbrica abusiva; non posso respirare perché sono ammalato di tubercolosi e non ho i soldi per curarmi. Non posso respirare per la puzza degli escrementi che ci circondano, perché non abbiamo un gabinetto; la spazzatura putrida accanto alla nostra capanna ci soffoca, e i topi tentano di mordere i bambini la notte».
Potrei continuare all’infinito, e non riuscire a declinare tutti i vari: “Non riesco a respirare” che ho incontrato e incontro. Forse, il più terribile è quello della nuova tratta delle schiave asiatiche, anche verso la Cina, dove 35 milioni di uomini sono in cerca di ‘mogli’. Si leva da questa regione una grido: «Lasciami stare, non toccarmi, liberatemi, voglio tornare dai miei genitori», ripetuto dalle bambine e dai bambini venduti a poco prezzo.
I poveri fotografati in questi giorni non riescono a gridare, perché non ne hanno la forza e non è nella loro cultura; e poi, chi li ascolterebbe, in mezzo alle piantagioni di mais dove vivono? I loro aguzzini che li sorvegliano? Quegli occhi neri, tristi, profondi come la notte di queste zone, senza luci dei lampioni, senza le insegne colorate dei supermercati di Bangkok, nascondono abissi di dolore e di grandi “perché?”. Ho trovato una giovane mamma, col suo bimbo piccolo in braccio ed uno attaccato alla gamba: non mi ha chiesto nulla, ma i suoi occhi era come se gridassero alla mia coscienza e quel grido non espresso mi ha tenuto sveglio due notti. Erano gli occhi di George Floyd e di tutti coloro che in questo mondo ci ripetono: “Non riesco più a respirare”.
Facciamo in modo che George Floyd non sia morto invano: poniamo la parola FINE alle discriminazioni, ai soprusi, alle violenze, alla tratta di essere umani: soprattutto basta con la nostra indifferenza, come se quello che accade non ci potesse mai toccare. Un giorno non lontano, potrei essere io quell’uomo a terra che implora a fil di voce: Sir please, I cannot breath. Signore, per favore, non riesco a respirare.
George Floyd sono io; sei tu.