Anche la birra può essere sociale

Le aziende che, spesso sotto forma di cooperativa, attuano l’inserimento lavorativo di persone in situazione di fragilità – disabili, immigrati, ex carcerati, o persone che arrivano da esperienze che comunque richiedono particolare attenzione – operano oggi in svariati settori. Le più note sono quelle dell’ambito della ristorazione, ma non è l’unico: tra quelli forse più “inaspettati” ci sono i birrifici artigianali.
Tra i pionieri in questo senso c’è il Vecchia Orsa di San Giovanni in Persiceto (Bologna), attività della cooperativa sociale Arca di Noè, che dal 2007 produce la sua “birra artigianale sociale”. «Tutto è nato quando l’attuale birraio e allora studente di sociologia, Enrico, ha unito la sua passione per la birra con l’idea di impresa sociale – racconta Martino Piccoli, commerciale del birrificio –. Aveva avviato inizialmente un progetto di pet therapy rivolto a persone con disabilità, chiamato “fattoriabilità”. Poi però si è reso conto che valeva la pena allargare il raggio d’azione pensando anche al lavoro: così l’anno dopo è iniziata anche la produzione di birra, che tra il 2017 e il 2018 è entrata nell’ambito delle attività de l’Arca di Noè».
Sono attualmente 5 le persone con disabilità che lavorano in birrificio, di cui due presenti fin dalla fondazione; e Martino sottolinea come sia appunto il lavoro l’aspetto più importante: «La cosa più bella è vedere come persone che rischierebbero di essere emarginate nella società di oggi qui in birrificio riacquistano autostima e si realizzano tramite il lavoro: dico spesso che arrivano qui a testa bassa ed escono a testa alta, pronti a dare il loro contributo alla società. Perché non vengono qui ad “occupare il tempo”, ma a lavorare a tutti gli effetti: siamo pur sempre un’azienda, partita da un garage e che ora ha tre locali (uno alla sede di San Giovanni in Persiceto e due a Bologna, ndr), produce più di 1000 ettolitri l’anno, e la cui sfida più grande è tenere insieme il livello qualitativo elevato e le finalità sociali».
E in effetti Vecchia Orsa pare esserci riuscito, essendo da anni nome noto nel panorama birrario artigianale italiano, e contando diversi riconoscimenti di prestigio per le proprie birre. «Siamo attivi da quasi 20 anni, che per un birrificio artigianale italiano non è poco – osserva ancora Martino –; e siamo entrati anche nell’alta ristorazione, collaborando con chef stellati. Quando presento le nostre birre le faccio sempre prima assaggiare, e l’aspetto sociale lo presento poi: il nostro lavoro va valutato e apprezzato a prescindere da questo, che è certamente un valore aggiunto, ma non deve influenzare. L’anno scorso abbiamo partecipato, insieme ad altri food truck, al G7 della disabilità ad Assisi; e a fine aprile saremo allo stesso modo in Piazza San Pietro per il Giubileo delle persone con disabilità. Insomma, non ci fermiamo, e per il futuro puntiamo ad inserire in birrificio altre persone».

Spostandoci invece in provincia di Lecco, a Valmadrera, troviamo il birrificio agricolo della Cascina don Guanella, nato nel 2021 all’interno della cooperativa agricola avviata nel 2014 dall’Opera don Guanella. Grazie ad una serie di donazioni e raccolte fondi, è stato possibile acquistare un terreno sulle colline sopra il lago, subentrando alla coppia di agricoltori che l’aveva fino ad allora coltivato; e oggi vi crescono ortaggi, frutta, cereali, luppolo, viti, ulivi, e vi vengono allevati svariati animali. I prodotti vengono poi lavorati sul posto o da aziende del territorio realizzando conserve, formaggi, carni, vini, pane, olio e appunto birra; che vengono venduti allo spaccio aziendale, nel mercati locali, o utilizzati per l’agriturismo che ha sede lì.
Anche la birra, battezzata “Barabina” e realizzata sotto la supervisione del mastro birraio Manolo Lia, è quindi parte di quella che viene definita “filiera della vita”: a partecipare a questo modello di agricoltura sostenibile sono infatti giovani a grave rischio di esclusione sociale (buona parte provenienti dalla casa di accoglienza che l’Opera don Guanella gestisce a Lecco) come immigrati, giovani usciti dal carcere minorile o provenienti comunque da contesti di difficoltà, e che accedono così ad un percorso di formazione e lavoro volto a costruire un futuro. Sostenibilità ambientale, economica e sociale sono pensate quindi come strettamente integrate, accompagnando le persone in una visione di lungo termine. Il birrificio ha promosso anche svariate “cotte di solidarietà”, in cui è stata prodotta birra destinata a finanziare attività della Cascina o dell’Opera don Guanella, o di altre realtà del sociale con cui la Cascina collabora.
Sono attualmente 21 i dipendenti della cooperativa, a cui si aggiungono quattro tirocinanti, due giovani in servizio civile e decine di volontari; «ed è bello vedere – racconta Bruno Corti, uno dei soci, che ci ha accompagnati in una visita alla Cascina illustrandone ogni aspetto – che c’è chi, arrivato da giovane in formazione, adesso è socio della Cascina e sua volta formatore di altri giovani. Una filiera, appunto, che prosegue». E prosegue anche il progetto della Cascina: «L’obiettivo per il futuro è quello di realizzare anche alcune stanze, completando così l’offerta agrituristica» conclude Corti.

Ma c’è anche chi non è formalmente impresa sociale, pur perseguendo nei fatti obiettivi analoghi. È il caso ad esempio del birrificio artigianale 5+ di Mattarello (Trento), nato nel 2015, che ha nel tempo impiegato diverse persone con fragilità in collaborazione con altre realtà locali che si occupano del loro inserimento. Come anche nel caso di Vecchia Orsa, «di solito racconto solo in un secondo momento, quando presento il birrificio, il fatto che lavoriamo così – spiega Lucia Del Vecchio, la cofondatrice –, perché non voglio che si inneschi in chi ascolta una sorta di reazione di pietà: vogliamo che le nostre birre vengano acquistate perché sono buone, non per beneficenza. Infatti dico spesso che appunto per questo la nostra birra deve essere non buona, ma buonissima. E la prova che birra buona e inserimento sociale non sono in antitesi sono i diversi premi che abbiamo vinto. Il nostro impegno è quello di produrre birre sempre migliori perché più una birra è buona più è capace di creare convivialità, di unire le persone e fungere da “lubrificante sociale”. Cosa di cui, del resto, c’è molta richiesta: ce lo confermano le numerose richieste prima e feedback positivi poi che riceviamo dalle realtà con cui collaboriamo».
Uno sguardo al sociale che, in questo caso, si estende anche ben al di là della comunità locale: una delle birre di punta di 5+ infatti, la “Shirin Persia”, viene aromatizzata con pregiato zafferano iraniano. L’idea è nata dalla collaborazione con il progetto omonimo lanciato da una coppia italo-iraniana, Davide e Ala, che sostiene i piccoli produttori (peraltro in gran parte donne) della zona di Qa’en; in un’ottica che potremmo paragonare a quella del commercio equo, garantendo una coltivazione sostenibile, a livello familiare, e la giusta remunerazione e distribuzione. «Mi piace dire che ogni nostra birra ha una storia da raccontare, che poi è quella delle persone che ci stanno dietro – conclude Lucia –; e credo che questo sia parte del valore stesso della birra, perché chi la compra ne compra anche la storia».
In questo articolo citiamo tre casi tra i più noti, ma non sono gli unici: l’invito è quindi quello a scoprire anche questo mondo, tanto più che una buona birra – bevuta con moderazione, naturalmente – è anche elemento di socialità.