Analfabetismo politico alla radice della crisi
La lotta all’analfabetismo è stato uno degli obiettivi prioritari perseguito nella scuola italiana, sin dall’unificazione del Paese, a partire dalla legge Casati (1859).
Pasquale Villari indicò le cause dell’inadempimento scolastico nel 1872 in un articolo pubblicato nella rivista Nuova Antologia, nel quale scriveva: «Che volete che faccia dell’alfabeto colui a cui manca l’aria e la luce, che vive nell’umido e nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie per la pubblica strada tutto il giorno?». E continua: «Se gli date la istruzione, se gli spezzate il pane della scienza, come si dice, risponderà come ho inteso io: lasciatemi la mia ignoranza poiché mi lasciate la mia miseria».
Tra le cause dell’evasione dall’obbligo scolastico vi era la mancanza di lavoro, l’incuria dei genitori che non motivavano i figli, e soprattutto la povertà. In un tale contesto, prendeva sempre più piede il pregiudizio dell’inutilità della scuola e dell’istruzione che, da sola, non avrebbe risolto fattivamente a sottrarre le popolazioni dalla miseria.
Nell’immediato secondo dopoguerra, i programmi della scuola elementare vennero riformati e importante fu il loro costante richiamo a privilegiare la formazione del carattere per sconfiggere l’analfabetismo culturale e spirituale, più deleterio di quello strumentale e di base (saper leggere, scrivere e far di conto).
Dieci anni dopo, nel 1955, si procedette ad una riforma dei programmi della scuola primaria: sostenevano l’istanza della formazione integrale, che non doveva puntare solo all’istruzione, ma all’educazione intesa nel senso più alto e completo del termine; una scuola che doveva educare le capacità essenziali della personalità per divenire uomini e cittadini di una società civilmente democratica. La finalità era quindi prettamente sociale e politica e la scuola doveva educare perché a ciascun cittadino fosse garantita la possibilità di inserirsi nell’ordine sociale e civile.
Oggi possiamo dire che nel nostro Paese l’analfabetismo di base sia stato pressoché superato, rimanendo confinato ad una scoria al di sotto del 4 percento della popolazione. Emergono tuttavia nuove ed altre forme di analfabetismo. Non meno preoccupanti.
In primo luogo l’analfabetismo funzionale. Il 47 percento degli italiani, ci dice l’Ocse, si informa (o non si informa), vota (o non vota), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare, che non solo sfugge la complessità, ma che anche di fronte ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, le migrazioni) è capace di trarre solo una comprensione superficiale.
Un analfabeta funzionale, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (per lui, ad esempio, la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto), e condivide quotidianamente sulla sua bacheca di facebook le bufale più fantasiose, di cui non si preoccupa di verificare la veridicità delle fonti e non ha forse voglia (e capacità) di farlo.
In secondo luogo l’analfabetismo politico. Ce lo descrive in modo lucido, e purtroppo ancora oggi attualissimo, una poesia scritta mezzo secolo fa dal drammaturgo tedesco Berthold Brecht, che circola in questi giorni sui social e spopola su YouTube.
Vi si afferma che «Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico, che non sente, non parla, né s’importa degli avvenimenti politici. Che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica». Brecht non risparmia epiteti per l’analfabeta politico: lo definisce somaro, perché «non sa che il costo della vita,il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina,dell’affitto, delle scarpe e delle medicinedipendono dalle decisioni politiche»; e lo chiama imbecille, perché «non sa che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali».
Questa consapevolezza, che rappresenta uno specchio del nostro tempo, può spiegare in parte l’astensione progressiva che si registra nelle competizioni elettorali, vissute come qualcosa di estraneo alla vita concreta delle persone.