Amleto, o l’attore crocifisso

La tragedia scespiriana, nell'originalissima interpretazione di Danio Manfredini, è in tournée tra Siena, Bari e Milano
AMleto

C'è un buio caravaggesco, rischiarato da luci indagatrici che sfumano in atmosfere colorate, che rivelano stati d'animo cromatici. Vi possiamo leggere una coreografia di balli meccanici, di ondeggiamenti onirici, di posture innaturali, di verticalità sbilenche, di cadute fuori asse. C'è anche un accenno di canto. E una recitazione astratta, inespressiva, soffocata da maschere di lattice su volti di biacca. Ci sono arti del corpo bloccati in una immobilità che brucia dentro e muove i pensieri.

E ci sono personaggi – tutti uomini anche nei due ruoli femminili – simili a marionette, a involucri svuotati che mano mano acquistano sostanza. Sono figure cristallizzate, meditabonde, riesumate da un sogno: quello di Amleto che, di schiena, accasciato in proscenio sopra un tappeto di petali, le materializza. Del principe di Danimarca e del suo destino, delle sue parole mille volte ascoltate, delle innumerevoli letture ricavate, Danio Manfredini ne fa un compendio personalissimo – di sapore brechtiano – giunto dopo diverse tappe e analisi testuali.

La tragedia scespiriana è scomposta e rimontata attraverso un'inedita partitura gestuale e figurativa che attinge alla danza e all'arte pittorica. Sono rimandi a madonne addolorate e ad angeli dalle rosse ali, a deposizioni michelangiolesche e a crocifissioni da Rosso Fiorentino. E alla passione di Cristo ("Tre studi per una crocifissione" è un suo spettacolo cult) si riaffaccia Manfredini in un finale che toglie il fiato. Per lui il crocifisso è l'attore che accetta di attraversare il suo calvario per giungere alla redenzione.

È in questa identificazione attore-Amleto-Cristo che va letto lo spettacolo. Così, il celebre duello fra Amleto e Laerte, fattisi come i due ladroni inchiodati alla croce, è combattuto nella loro fissità muovendo appena il corpo al suono delle sciabole dirette da Claudio vestito da centurione e Gertrude da Madonna. Amleto muore tra le braccia di Orazio che lo depone – pittoricamente – nella stessa posizione iniziale, dopo avergli tolto la maschera e avercelo consegnato uomo.

Siamo dentro una dimensione mentale di fantasmi e di corpi che si muovono tra lancinanti simmetrie costruite con un andamento a quadri che incorniciano i personaggi e dove sono riconoscibili le stratificazioni di linguaggi teatrali – incluso il teatro giapponese e il mimo – che il regista e attore ha esplorato in anni di sperimentazione, e che ritroviamo in folgoranti sintesi espressive. Come la scena dell'annegamento di Ofelia dietro un telo bianco tramutatosi in fiume dopo che, dietro lo stesso schermo, era stato pronunciato il celebre "essere o non essere" origliato da Polonio e Claudio; o l'apparizione dello spettro del padre sui trampoli alle spalle del figlio.

Ma Manfredini, artista rigoroso e appartato, «randagio» – sua la definizione – per necessità e per vocazione, per assennatezza e per integrità di scelte, discetta sarcasticamente anche sulla pratica teatrale, sul regista e sull'attore che, malato, viene trasportato su una sedia a rotelle. Il comune male di vivere del nostro tempo, tra parola e azione, tra destino del singolo e meditazione metafisica sulla "scena" del mondo, appaiono intrecciate in un'unica verità universale.

"Il principe Amleto", liberamente ispirato a W. Shakespeare, regia Danio Manfredini. In tournée, dopo Siena (Teatro dei Rozzi) e Bari (Teatro Kismet), al Teatro Franco Parenti di Milano, dal 12 al 14/12.

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