Amleto o del silenzio

L’Amleto di Shakespeare continua a catturarci per le infinite variazioni di significato che ogni lettura scenica può offrirci. E, data la sua universalità, si lascia influenzare anche da autori affacciatisi secoli dopo, e utilizzati da registi come punto di riferimento. C’è ne La tragica storia di Amleto principe di Danimarca, di Giuseppe Marini un finale bellissimo. Ed è l’inserimento, con una voce fuori campo, nel buio della scena, di un brano dell’Innominabile di Beckett. Il folgorante testo incarna la grande solitudine dell’uomo contemporaneo che non è in grado di conoscere sé stesso e si divide in due: una coscienza che osserva ed un oggetto che viene osservato. Così è Amleto, per Marini dramma della coscienza e della memoria e delle malattie dello spirito. Se L’innominabile rappresenta l’impotenza a trarre un qualsiasi senso compiuto dalla realtà, allora raccontare, mostrare, è possibile unicamente attraverso una serie di finzioni, affabulazioni, che il protagonista esprime nello sforzo disperato e vano di dare consistenza a sé stessi e al mondo. Il viaggio che Amleto compie è verso il silenzio. Le parole delle chiusa del testo beckettiano, però – Non posso continuare, ma devo continuare – raffigurano sul piano esistenziale la volontà stoica di Amleto ad andare avanti comunque, nonostante l’implacabile verdetto sulla condizione umana. Continuare a rappresentare, regista di se stesso, la sua tragica storia di passioni irrisolte e irrisolvibili. Frutto di un laboratorio, questo Amleto è suggestionato da linguaggi e generi – non ultimi le musiche di Marco Podda – che attraversano la seve- ra scatola scenica delimitata da un tendaggio di catene. Gli attori indossano costumi da officianti di un sacro rito. Entrano all’inizio dal fondo della platea coperti da un velo; brindano su lunghi calici posati in proscenio su un canale di acqua. Sulla lavagna immateriale dell’aria Ofelia e il fratello Laerte scriveranno i consigli del padre; e sempre nell’aria, immobili e frontali, urlando verso il pubblico, senza azioni si consumerà il duello finale e l’avvelenamento, mentre la scena si tinge di rosso, unico colore nel bianco e nero dominanti. E bianca è l’enorme bara dei due becchini che scavano, sovrastata da una fila di teschi pendenti. Essa ospiterà quella giocattolo di Ofelia, il cui funerale, con lei in testa vestita da sposa, sembra una cerimonia nuziale. È un’Ofelia punk, con movenze da bambola nevrotica, quella della convincente Alessandra Ingargiola, mentre la Gertrude inespressiva di Monica Samassa dimostra una vistosa debolezza recitativa accanto al Claudio dell’ottimo Maurizio Palladino. L’Amleto dello stesso Marini – che indugia però in pose di maniera – è lucido, consapevole, intelligente pur se finge la follia; e per questo ci fa afferrare la potenza delle parole. Con escursioni dal tragico al clownesco i bravi Andrea Capaldi e Armando Iovino si adoperano in diversi ruoli, così anche Maurizio Lucà e Silvio Laviano. Giuseppe Distefano Al Teatro di Tor Bella Monaca di Roma. Ripresa nella prossima stagione. CIVITANOVA DANZA Ad inaugurare il festival marchigiano (dal 1°/7 al 4/8) sarà la canadese Marie Chouinard con Le Sacre du Printemps; quindi la compagnia tedesca Matanicola dell’italiano Nicola Mascia e l’israeliano Matan Zamir con Ladies first sulla Berlino degli anni Venti e Trenta; una nuova versione di Bolero di Fabrizio Monteverde per il Balletto di Roma; dall’Opéra de Paris Laurent Hilair e Wilfried Romoli, per Le Gala des Hommes; Buenos Aires Hora Cero con gli artisti dell’Union Tanghera; i massimi protagonisti della danza mondiale Alessandra Ferri e Roberto Bolle (nella foto); e Bollywood Ballet del coreografo e danzatore Raghunath Manet. www.civitanovadanza.it

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