Amici, non profughi

L'esperienza di un'assistente della polizia di Stato alle prese con gli immigrati sbarcati nel nostro Paese. Dalla rabbia all'accoglienza
Lampedusa

Mi chiamo Eva e sono un’assistente della polizia di Stato, pur non prestando servizio all’ufficio stranieri, quest’anno come molti altri miei colleghi sono stata chiamata ad occuparmi dell’emergenza immigrati sbarcati nel nostro paese.

Sono partita senza nessun entusiasmo e senza neanche sapere che cosa dovessi fare, le disposizioni erano di arrestare quanti erano rientrati nel nostro paese senza averne titolo, perché precedentemente colpiti da decreto di espulsione.

 

Sembrava un lavoro di routine, semplice…ma nonostante le immagini viste in televisione, gli articoli dei giornali, le testimonianze non immaginavo cosa mi sarei trovata di fronte.

 

Tante le esperienze po’ “forti” vissute, io però preferisco raccontare il “mio inizio”, cioè il momento in cui in me è avvenuta una profonda metamorfosi, una trasformazione che mi ha portato ad un approccio totalmente diverso con l’altro, lo straniero, il clandestino, il profugo: tutte parole che pongono una barriera tra te e l’altro che sarebbe più giusto chiamare fratello.

 

Ma andiamo per gradi. L’impatto con i campi di prima accoglienza, malgrado gli immensi sforzi dei volontari che vi prestano servizio non è dei migliori. Sono spesso aree recintate in mezzo alla campagna oppure edifici dismessi all’interno dei quali tutto è diviso in settori, spesso ci sono container che dovrebbero ospitare al massimo dieci persone e per tutti bagni e servizi in comune.

 

Dentro i campi una moltitudine immensa di uomini, donne, bambini di età ed etnie diverse, alcuni anche disabili. Appena arrivata li guardo passeggiare inermi, in attesa, e mi chiedo di che cosa… Non capisco che senso abbia attraversare l’inferno, sfiorare la morte per poi finire in luoghi così simili alle baraccopoli e ai poveri villaggi dai quali provengono…

 

Poi, l’episodio che segna la svolta. È sabato, siamo quasi a fine turno quando ci informano che sta arrivando un cospicuo gruppo di profughi sbarcati il giorno prima a Lampedusa. Non siamo preparati a quest’emergenza: mancano l’interprete, il personale e i volontari e non c’è tempo per organizzare l’accoglienza, ma subito tutti si rendono disponibili a prolungare il proprio turno e cominciamo a darci da fare.

 

Quando arrivano i pullman assistiamo a scene di panico: gli ospiti del centro si ammassano contro le recinzioni cercando di scavalcarle alla disperata ricerca di un volto conosciuto o di qualche parente, mentre i nuovi arrivati devono entrare in una grande sala dove viene consegnato loro dell’acqua, generi di conforto e anche un libretto contenente le spiegazioni sul campo, che però non comprendono, forse perché in molti non sanno leggere.

 

L’unica interprete presente di lingua araba cerca di spiegare, urlando dal fondo della sala, cosa devono fare, ma per loro è molto difficile capire che bisogna fare dichiarazioni di identità, foto, dare le impronte e registrarsi per accedere al campo. Tra i nuovi arrivati ci sono etnie diverse e quindi sono diverse anche le abitudini e iniziano le difficoltà.

 

In un attimo la ribellione è totale: i somali non vogliono farsi prendere le impronte, i tunisini, o presunti tali, vogliono da mangiare, qualcuno telefona e io noto che possiede un cellulare di ultima generazione mentre io possiedo solo un vecchio modello. Solo più tardi scoprirò che quel telefono è l’unico contatto che hanno con le famiglie lasciate nei loro villaggi sperduti.

 

Neanche il cibo placa gli animi, anzi è motivo di lamentele e disappunto. È il momento più difficile perché provoca in noi una grande rabbia. Inizio a pensare: ma che vogliono? Siamo qui da stamattina e qualcuno non ha neanche pranzato, siamo qui per loro, per aiutarli e quale è la risposta? Anche i volontari iniziano a perdere la pazienza e il caos aumenta, così io e la mia collega ci facciamo da parte ed usciamo per riordinare le idee e trovare una soluzione per sbloccare la situazione di estrema tensione che si è creata.

 

Ed ecco che qui si verifica un piccolo episodio che per me è stato un suggerimento di Gesù su cosa fare per risolvere tutto nel modo più semplice. Si avvicina a noi la figlia di una volontaria, anch’essa straniera ed inizia a riempirci di domande su tutto quel caos, poi mi dice che a scuola la prendono in giro perché anche lei è straniera e le dicono che se continueranno ad arrivare tanti profughi, finirà che obbligheranno ogni famiglia a prenderne uno in casa. Noi ridiamo senza capire che quella bambina aveva la risposta che cercavamo. Le diciamo di stare tranquilla e che non deve avere paura. Lei però con molta semplicità ci spiega che non ha paura degli altri in quanto stranieri, ma solo degli estranei e aggiunge: «Se però ti dai la mano, ti presenti, parli e fai amicizia, allora non sei più un estraneo, ma un amico ed io posso anche ospitarti». In quel momento ho capito che chi stava sbagliando l’approccio con loro eravamo noi, perché noi continuavamo a vedere in quelle persone lo straniero e non un fratello da accogliere e da amare.

 

Siamo rientrate nella sala convinte di poter cambiare la situazione. Infrangendo ogni protocollo siamo andate in mezzo alle gente per parlare, io in francese, la mia collega in inglese e iniziamo un dialogo. Ci presentiamo con i nostri nomi, ma ancora la diffidenza non è vinta. Parlottano tra di loro, ci fanno altre domande, ma sento che abbiamo iniziato un percorso di conoscenza reciproca e siamo un po’ meno estranei.

 

Alzano di nuovo la voce tra loro, ma noi li lasciamo stare: è il momento del confronto, della comunicazione e noi dobbiamo solo rispondere alle loro domande, tranquillizzarli, confortarli, accoglierli. Alcune donne si avvicinano, mi rivolgono domande sulla mia famiglia e sento finalmente che le barriere sono cadute e si sta istaurando un clima di fiducia reciproca.

 

Io e gli altri operatori di polizia diamo la nostra parola che quello del foto segnalamento è l’unico percorso per entrare con il piede nel nostro territorio e all’improvviso il miracolo: pian piano iniziano ad alzarsi e formano delle file ordinate per la prima intervista e per le impronte.

 

È bastato poco: una stretta di mano, un sorriso, un abbraccio  per abbattere ogni barriera, è bastato guardarsi negli occhi e vedere in loro ognuno di loro un fratello.

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