America Latina nella morsa della corruzione, ma la gente dice basta
L’America Latina è ancora al comando delle classifiche mondiali relative alla corruzione, all’ingiustizia e alla disuguaglianza sociale – con le solite eccezioni di Uruguay, Costa Rica e Cile, sempre meno corrotti dell’Italia (anche Cuba lo è, secondo alcune classifiche).
Secondo l’Indice globale della corruzione, pubblicato agli inizi di ottobre dal Foro economico mondiale, 5 dei 10 paesi più corrotti appartengono alla regione latinoamericana: al Venezuela il triste primato, seguito da Bolivia, Brasile, Paraguay e Repubblica Dominicana. Secondo Transparency international, invece, dominano gli africani, tallonati da centroamericani, caucasici, asiatici e sudamericani, con Somalia, Corea del Nord e Afghanistan al comando. Ma la novità dall’America Latina è che oggi la gente tollera sempre meno questo fenomeno. E non è poco.
I miglioramenti nei settori dell'educazione, degli istituti democratici, del lavoro, della formazione civica e dell'accesso alle nuove tecnologie, ormai sempre più diffusi, anche se con risultati molto diversi a seconda dei vari Paesi, hanno provocato negli ultimi anni rovesciamenti di governi, dimissioni di ministri, giudici, alti funzionari ed addirittura detenzioni prolungate. E non si tratta di semplici “vendette politiche” di governanti e giudici di segno opposto a quello dei loro predecessori.
In Brasile, le megaoperazioni della polizia, “Lava Jato” (“autolavaggio”) e “Petrolão”, coordinate tra loro, hanno evidenziato uno schema mafioso di corruzione (quasi) perfettamente congegnato, hanno portato all’incarcerazione di politici ed imprenditori prima considerati “intoccabili”, oltre ad aver propiziato la destituzione della presidente Dilma Rousseff (un capitolo complesso e controverso, vedi gli articoli La sconfitta di Dilma Rousseff e della democrazia brasiliana).
Tuttavia, il fatto che ciò sia stato possibile, anche per le forti pressioni delle piazze, evidenzia una crescente intolleranza e la volontà di “far pulizia”, anche “in casa propria”: è la prima volta che un ex presidente – Lula da Silva – è indagato, dopo essere stato fermato dalle forze dell’ordine mentre è al governo c’è il suo stesso partito.
Le imputazioni all’ex presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner, le attuali indagini per traffico di influenze che pesano sul suo successore, Mauricio Macri, le ingenti bustarelle riscosse dall’ex capo dello stato guatemalteco Otto Pérez-Molina, nonché l’arresto, avvenuto domenica scorsa nel bel mezzo della festa di nozze del figlio, dell’ex presidente salvadoregno Antonio Saca (2004-2009) dimostrano due cose.
La prima, la gravità del problema, che pesa sullo sviluppo socioeconomico (malversazione di fondi altrimenti destinabili al miglioramento delle condizioni di vita della gente, e forte freno a investimenti ed esportazioni). Pensando all'El Salvador, la stessa sorte toccò al predecessore di Saca, Francisco Flores, mentre è indagato anche il suo successore, Mauricio Funes, in asilo politico in Nicaragua, dove governa Daniel Ortega. I giovani “governatori modello” messicani di Veracruz, Sonora, Quintana Roo e Chihuahua, esponenti del rinnovamento del partito PRI messicano che ha permesso al presidente Peña Nieto di vincere le elezioni, sono oggi "profughi della giustizia".
Ma questi scandali dimostrano anche, e questo è il secondo punto, che oggi è sempre più improbabile “farla franca”. Anche in Paraguay, Paese che è sottostato ad una lunghissima dittatura, un’inedita pressione popolare, soprattutto attraverso le reti sociali, comincia a far tremare i potenti. Certo, il populismo è ancora lungi dall’essere sconfitto, e spesso non è agevole distinguere se e quanto un governante che rimane per molti anni alla guida di un paese lo fa in base a buone pratiche con risultati durevoli, per un facile assistenzialismo o perché ha avuto successo nell’impiantare la sua “corte”. Spesso è un mix di due o tre di questi ingredienti.
Riferendosi ai governi di sinistra, vari dei quali hanno appena chiuso un ciclo, Jorge Castañeda, politico, intellettuale, giornalista ed ex ministro degli Esteri messicano, ha scritto, un po’ semplicisticamente: “Hanno ‘rubato per la corona’, ovvero, per mantenersi al potere. La gente non l’ha tollerato, e l’opposizione ne ha approfittato”. E senz’altro c’è del vero in questa sommaria spiegazione di alcune recenti vittorie elettorali. “Negli anni '80, quando avvenne la maggior parte delle transizioni dalle dittature alla democrazia in America Latina”, afferma Castañeda, “molti pensarono che i mali endemici della regione sarebbero svaniti automaticamente. Non fu così”. La corruzione e le sue tentazioni annesse “sono presenti persino nei governi di sinistra, i cui leaders si vanagloriavano e spergiuravano che non sarebbero mai incorsi nelle odiose pratiche dei loro boia” (si tratta infatti, in molti casi, di politici perseguitati e a volte torturati dalle dittature, ndr).
Tuttavia, come dicevamo, sono sempre di più, e sempre più eclatanti, i casi che vengono alla luce. E tanta gente, specie i giovani, con una migliore educazione e un migliore accesso all’informazione (nonostante l’America Latina sia ancora un posto pericoloso, qua e là, per i giornalisti indipendenti), esercita un certo grado di controllo civico, non è più disposta a “chiudere un occhio” e a tollerare la corruzione, la denuncia, e non molla fino a quando i colpevoli non pagano il dovuto.