America latina: a quando l’integrazione?
Non è facile tracciare un bilancio della realtà latinoamericana in chiusura di questo 2019. Forse più che in altri momenti, si avverte nella regione la mancanza di una spinta integratrice che non si limiti agli interessi doganali, come invece era percettibile chiaramente negli anni ’70, ’80 e ’90, quando vari progetti presero corpo, come l’Associazione latinoamericana di integrazione, il Mercosur, il Sistema centroamericano (Sica), la Comunità dei Caraibi, il Trattato di cooperazione amazzonico e, più avanti, quando è esistita una maggiore sintonia politica una volta iniziato il XXI secolo, ha dato vita alla Comunità di Stati latinoamericani (Celac) e all’Unasur, l’Unione delle nazioni sudamericane.
Purtroppo, l’ideologizzazione di queste due ultime istituzioni ne ha anche decretato la neutralizzazione da parte dei governi che si sono succeduti a quelli che le hanno create, senza però coglierne lo spirito bolivariano di unità regionale, che è da sempre il sogno da tutti ammirato ma da pochi condotto.
È quasi superfluo segnalare che in qualche modo l’Unione europea ha sempre fatto da esempio, se si pensa ai risultati ottenuti nonostante i suoi membri abbiano, con poche eccezioni, ciascuno la sua lingua. Un vantaggio culturale spesso ignorato in America Latina, dove spagnolo e portoghese riassumono le diversità linguistiche della regione (con l’eccezione dei Caraibi). Oggi il processo di integrazione è quasi un guscio vuoto se si pensa che i due principali leader sono anche i primi a non averne fiducia, impegnati come sono in serie faccende domestiche.
Il Brasile, che fino a pochi anni fa ha aspirato a convertirsi in potenza mondiale quando ha addirittura cercato di mediare nel diverbio tra Washington e Teheran sulla questione nucleare, è interamente assorbito dai propri problemi economici e sociali, governato da un presidente che non crede nel cambiamento climatico in corso, con arrampicate sugli specchi destinate ad affibbiare alle Ong ambientaliste la colpa del disastro degli incendi nella selva amazzonica.
L’agenda del presidente messicano, Andrés Manuel López Obrador, sarà interamente dedicata a puntellare una gestione che non può non traballare in uno dei Paesi più violenti del mondo – 50 mila desaparecido –, dove l’impunità e la corruzione determinano la vita di milioni di persone, mentre decine di migliaia di migranti, la metà centroamericani che attraversano da sud a nord il Paese, creano una emergenza umanitaria mai dichiarata. Difficilmente un Paese che non abbia la consistenza politica ed economica dei primi due potrà assumersi il ruolo di apripista. E non pare possa farlo l’Argentina, che pure affronta uno scenario interno per niente tranquillizzante.
I primi mesi del 2020 saranno poi di importanti definizioni. A gennaio in Perù si voterà per il nuovo parlamento e si verificherà se la protesta generale contro la corruzione modificherà la maggioranza oggi a favore del partito fujimorista Fuerza Popular, la cui principale leader accusata di trafficare influenze ha grossi conti con la giustizia. A marzo in Bolivia dovrebbero ripetersi le elezioni annullate ad ottobre. Evo Morales ne sarà escluso. Il suo partito (Mas) ha oggi più del 60% di deputati e senatori, ma è da attendersi un testa a testa tra il Mas e l’opposizione. Ad aprile il Cile celebrerà il plebiscito sulla nuova costituzione, un processo che durerà due anni e che occupa il dibattito interno. L’attuale calma che regna pare più una tregua prima di riprendere con maggiore forza le protesta sociale se il governo non dimostrerà di aver compreso il messaggio e avrà messo in moto riforme sostanziali, in primis, pensioni e sanità. E lo stesso va detto per la Colombia, dove l’attuale governo ancora non ha preso un indirizzo deciso per mettere fine ai conflitti armati ancora attivi e ridurre le sperequazioni sociali che hanno riempito le piazze in segno di protesta.
In questo contesto, il divario tra i governi di destra che si alternano a quelli di sinistra è sempre maggiore, come se ciascuno sapesse bene cosa fare, per poi ammettere alla fine della sua gestione di non esservi riuscito. Un processo di integrazione ben condotto potrebbe essere d’aiuto, se non altro per instillare in tutti la convinzione che in un mondo globalizzato nessuno può salvarsi da solo. Lo sta insegnando a tutti, drammaticamente, il cambiamento climatico. Una verità elementare, ma che in tempi di post-verità si torna a mettere in discussione. E non a caso proprio da chi nega il problema ambientale.
Anche le idee hanno i loro momenti di esilio, come è accaduto al popolo di Israele durante la cattività babilonese. Gli esegeti insegnano che proprio quei momenti sono stati fecondi di riflessione e di comprensione del proprio destino. Sarà allora tempo di riflessione per l’integrazione latinoamericana. Una brace che cova sotto la cenere da più di un secolo e mezzo, insieme all’idea di fraternità.