Una curva tutta da appianare
L’Organizzazione Mondiale della Sanità segue in stato di allerta l’evolversi della pandemia in Sudamerica. È convinta che sia il nuovo epicentro della diffusione del morbo.
La maggiore preoccupazione la suscita il Brasile, con più di 20 mila morti e oltre 310 mila casi positivi registrati. Ma si è lontani dall’applicare il numero necessario di tamponi. A sfavore di questa lotta, già disuguale, giocano le stranezze del presidente Bolsonaro, nel suo sforzo di minimizzare il pericolo appoggiato dal fondamentalismo delle Chiese evangeliste, di cui molti pastori sono convinti che la malattia sarà debellata dalla fede, dalla preghiera e, mi raccomando, senza dimenticare la decima. Negli ospedali di alcune città del nord, la fede è proprio l’ultima risorsa del personale ospedaliero privo di attrezzature adeguate. In contrasto con le statistiche italiane e spagnole, l’età media dei deceduti in Brasile è molto bassa.
Comincia a mostrare il fiato corto anche il sistema sanitario cileno, tra i più sviluppati secondo il ministro della Sanità locale, che ora sta forse rimpiangendo di aver consentito tre settimane fa di allentare la stretta cedendo all’idea di lasciar funzionare il mercato. La media dei contagiati giornalieri si è impennata: dai 600/800 casi giornalieri, si è passati a mille, poi 1.600, per diventare il doppio nell’ultima settimana. Oltre 600 i decessi, l’80% dai 69 anni in su. Forse se avesse dato ascolto al collegio medico nazionale, la curva non sarebbe simile a quella di un vulcano. Ma si sa, per questo governo, parlare di società civile è parlare di un soggetto sconosciuto e incomprensibile.
Va poi seguito con attenzione il Perù. I positivi accertati sono circa 120 mila ed i decessi attorno a 3.500. Ma i casi reali si stima che siano incalcolabili. La settimana scorsa, in uno dei tanti mercati di Lima, su meno di 200 tamponi effettuati sui commercianti di alimenti, due su tre sono risultati positivi. Il governo si sforza di ampliare le misure adottate, il coprifuoco è in vigore dalle 21 alle 5 del mattino, e in alcune regioni dalle 18 alle 4. Ma non si riesce ad ottenere che la gente resti a casa. Le ragioni sono tante.
Prima di tutto, il 72% delle persone in età da lavoro nel Paese si muove nella precarietà. Un’arte di arrangiarsi estesa tra gente che sa di non poter far granché conto su istituzioni pubbliche spesso assenti, con una capacità di intervento limitata ed un pressapochismo proverbiale. Se ci si sposta nelle zone rurali, ad esempio, quelle a suo tempo devastate dal terrorismo di Sendero Luminoso – il delirio maoista di Abimael Guzman suo massimo conduttore –, l’assenza dello Stato non è mutata granché in 30 anni. Magari qualche infrastruttura esistente la si deve alle politiche delle compagnie minerarie attratte dalla facilità con la quale si possono estrare metalli preziosi dal Paese. Donano una strada, una piazza o una scuola… cosa vuoi che sia di fronte a centinaia di milioni o alcuni miliardi di dollari di utili!
In Perù, fino a poco prima della pandemia, su cinque notizie che apparivano sui giornali, due erano di conflitti socio-ambientali provocati da una cultura estrattiva accettata dalle autorità sempre a corto di liquido e dai disastri ambientali provocati da multinazionali che a casa loro non potrebbero commettere gli stessi scempi. Le casse statali sempre avide di contanti sono una ragione che spiega perché sia stato consentito ai lavoratori peruviani di ritirare fino al 25% dei risparmi per le future pensioni per far fronte alla grandinata di licenziamenti che stanno lasciando a casa migliaia di persone. La gran parte di questi ritiri, cioè parte della pensione futura che dipende da questo risparmio individuale affidato – manco a dirlo – ad entità private, servirà per pagare debiti e spese sanitarie. Insomma: la salute e la crisi te la paghi tu.
In questo contesto si è fatta notare l’azione della Caritas nazionale che in varie località ha consentito a molte famiglie di mettere qualcosa sotto i denti. Ma siamo ancora di fronte a una società civile debole e divisa, poco abituata ad essere un interlocutore propositivo al servizio del bene di tutti. Nel continente della socialità, non è sempre facile mettersi assieme.