Ambiente. America latina: luci e ombre
Doccia scozzese per l’ambientalismo latinoamericano: mentre si fanno passi in avanti se ne fanno anche indietro, e spesso sono i più lunghi. Mentre la Costa Rica e l’Uruguay sono riusciti a produrre durante quasi tutto l’anno energia elettrica al 100% rinnovabile, in Brasile il presidente eletto Jair Bolsonaro ha lasciato trapelare che potrebbe ritirare la firma del Paese dall’Accordo di Parigi. Una boutade che pare voler imitare le decisioni “energiche” del presidente Donald Trump, senza però considerare quante volte queste si sgonfiano con paurosi flop. Dall’altro lato dell’Atlantico non si è fatta attendere la risposta del presidente francese Macron: non ci sarà accordo col Mercosur (di cui il Brasile fa parte) se il Paese si ritira dal patto sul cambiamento climatico. Ci vuole anche la pressione politica.
Nel frattempo, sempre dal Brasile arriva la notizia preoccupante che lo stato di Rondonia non considera più come aree protette 600 mila ettari di selva amazzonica. Ma intanto anche l’Argentina, che in tanti anni non è andata oltre i tre mulini a vento situati alle porte della Patagonia, nonostante sia una delle zone più ventose della regione, si sta convertendo all’eolico realizzando 63 parchi di aerogeneratori. Il governo stima che per il 2025 il 20% dell’energia prodotta nel Paese sarà rinnovabile.
Risponde dall’altro lato delle Ande il Cile – ormai all’avanguardia sia nell’eolico che nel solare, con incrementi sempre più sostanziosi nella produzione di elettricità pulita – mettendo in funzione 100 bus elettrici nella sua bella capitale, ma sempre assediata dal traffico intenso. Santiago ha un problema di bassa qualità dell’aria e ciò si deve alla sua posizione geografica e climatica: con cime elevate che impediscono che i venti portino via l’inquinamento che stagna, obbligando spesso ad usare il sistema delle targhe alterne. I bus sono silenziosi, offrono wifi gratis e aria condizionata, e si annuncia il prossimo acquisto di altre unità, mentre già funziona una sesta linea della metro e se ne costruiscono altre tre. Un modo concreto per rispondere alle sfide del traffico.
Passi indietro purtroppo in Perù, dove addirittura si deforesta all’interno del parco nazionale Bahuaja-Sonene che dallo scorso anno ha perduto più di 600 ettari, deforestati dall’amministrazione o dai narcotrafficanti, che piantano la coca approfittando dei vantaggi che offre raggiungere l’impervia regione. Peggio ancora va nella regione del Chaco del Paraguay, dove in quattro anni sono spariti un milione di ettari di bosco in una zona che tende ad essere stepposa. E la difesa dell’ambiente naturale registra ancora cattive notizie dal Messico: 12 gli attivisti assassinati in 10 mesi per difendere la terra o proteggerla da progetti letali. Lo scorso anno, in un Paese sconvolto da una violenza folle, 15 altri attivisti hanno perso la vita per le stesse ragioni. L’ultimo episodio è quello della morte di Julián Carrillo, indigeno del gruppo rarámuri mentre portava avanti la sua battaglia davanti al Tribunale unitario agrario di difesa del territorio dalla deforestazione, la produzione mineraria e la semina dell’amapola e della marihuana da parte di gruppi criminali.
Vale la pena constatare che, almeno su questo punto si va avanti, è sempre più difficile contrastare la risposta attiva della società civile, visto che la sostenibilità ambientale fa parte ormai dei contenuti di decine e decine di discipline di varie carriere universitarie. Le nuove generazioni hanno una coscienza più formata e ciò è di buon presagio. Ma occorrono urgenti misure da parte dei governi che devono assumere la difesa dell’ambiente come politica di Stato, da coordinare poi sul piano regionale. L’America Latina è responsabile di appena il 9% delle emissioni contaminanti, ma è altamente vulnerabile ai cambiamenti climatici. È inoltre necessario che conservi il suo ruolo di polmone del mondo.