Amazzonia, Siberia e Africa: la nostra responsabilità!
Le notizie sugli incendi di questi mesi in Amazzonia, Siberia e, da ultimo, in Africa, stanno avendo giustamente un’eco forte a livello mediatico. I numeri del 2019 raccontano che sono aumentati gli ettari bruciati rispetto agli anni passati, per il consumo esasperato delle risorse.
La responsabilità è tutta della politica, da Bolsonaro a Putin, passando per Evo Morales ed i leader africani, che non ha più il controllo della situazione. Chi governa davvero sono i manager delle grandi multinazionali ed i mercati finanziari. I politici eseguono, perché non più capaci di progettare, stritolati dai ritmi veloci imposti dalla finanza.
Il problema è umano. I pochi articoli usciti in questi giorni hanno puntato molto sull’allarmismo, cercando di sensibilizzare la parte sentimentale e romantica dell’opinione pubblica. Ma non si risolve nulla con la paura, perché, se dovesse prendere il sopravvento, ci condurrebbe verso gli stessi errori che sono stati fatti fino ad oggi:
- L’urgenza di cambiare il mondo;
- Il rifiuto del passato attraverso lo scontro generazionale;
- La convinzione di essere gli unici a possedere la verità, chiudendosi verso l’altro.
La tecnoscienza dà a “coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero” (Papa Francesco, Laudato si’, par. 104).
Il problema ecologico nasce dal binomio inscindibile fra sviluppo economico e tecnologia, in grado di scatenare la bestia egoista che vive in ogni essere umano. La possibilità ipotetica di poter fare tutto ha distrutto il senso del limite, di quel confine da non superare mai. La volontà di potenza che anima l’umanità, come un desiderio infantile ed immaturo, ha trasformato i limiti in sfide da vincere ad ogni costo. Qui ha inizio la crisi ecologica che viviamo oggi, che diventa ogni giorno più profonda, perché la tecnologia continua a progredire al fine di soddisfare chi detiene il potere economico.
Il legno siberiano e la Cina
La foresta siberiana nella regione dello Krasnoyarsk è stata lasciata bruciare perché “era economicamente sconveniente intervenire”. Una frase che ripete da diversi giorni lo scrittore Nicolai Lilin sulla sua pagina facebook, citando il presidente di quella regione, Aleksandr Uss.
Lo scrittore moldavo, cittadino italiano, in questi mesi di luglio e agosto sta cercando di informare l’opinione pubblica sul disastro ecologico che si consuma in Siberia.
Ripete, con forza e passione, che sono bruciati oltre 9.500.000 di ettari di foresta perché non si è voluti intervenire prima, puntando il dito verso l’intreccio opaco fra politica regionale ed interessi economici.
Il legno siberiano è stato concesso per lo sfruttamento ad alcune società statali cinesi sin dalla fine degli anni Novanta e, già all’epoca, era stato lanciato l’allarme sui rischi di disboscamento selvaggio per vendere più legno possibile. Oggi gli incendi boschivi sembrano essere opera di “network criminali (…) da anni impegnati a incendiare e abbattute intere foreste di legname meno prezioso per poi avviare delle riforestazioni ad hoc di alberi a più alto valore aggiunto” (articolo di Yurii Colombo pubblicato su “ilmanifesto” dell’8.8.2019). Insomma si distrugge la foresta, si uccidono gli animali, ma soprattutto si distrugge la cultura dei popoli indigeni che vivono in quei luoghi, per il mercato!
Amazzonia: serbatoio di carne e soia per USA e UE
L’Amazzonia brucia da decenni. Nonostante il periodo della presidenza Lula abbia cercato di apportare dei cambiamenti, rivedendo i diritti di sfruttamento della foresta, ha purtroppo fallito, come affermato in modo documentato dal rapporto “The lion wakes up” di Greenpeace del 2008. Ad oggi nulla è cambiato. Gli imprenditori agricoli e gli allevatori continuano a massimizzare i profitti e minimizzare i costi, sfruttando i terreni fertili della foresta. Il risultato è un continuo e progressivo impoverimento del territorio!
Questo sviluppo quanto è costato umanamente? Quante persone sono morte, uccise, per aver tentato di salvare la foresta dalla sete di profitto? Quanti alberi sono stati abbattuti ed animali uccisi? Il risultato è la distruzione della società brasiliana. La questione ambientale è il riflesso di una devastazione umana. Questo lo aveva capito bene il presidente Lula, che provò a fermare il tutto, anche grazie alla sua conoscenza e amicizia con Chico Mendes, ma fallì. Oggi il presidente Bolsonaro, sostenuto da chi vuole devastare la foresta, ha accelerato il processo di distruzione, smantellando tutti i pochi presidi conquistati in questi anni. L’attuale Presidente del Brasile, durante la sua campagna elettorale “si è scagliato contro quella che ritiene l’eccessiva protezione del governo federale nei confronti di queste popolazioni. Ha paragonato i loro abitanti ad animali negli zoo, suggerendo che starebbero meglio se si assimilassero e godessero di una fetta dei profitti che deriverebbero dall’apertura dei loro terreni all’allevamento, all’agricoltura, al taglio del legname e all’estrazione.” (Articolo di Anthony Boadle, tradotto e pubblicato da “Internazionale” con il titolo “In Brasile i territori indigeni sono sotto attacco” il 12 marzo 2019).
In questo contesto, oggi, è difficile fare previsioni. Anche perché l’Europa vuole salvare l’Amazzonia solo a parole, ma nei fatti, con l’accordo di libero scambio con il Mercosur, sostiene proprio la produzione di carne e soia OGM per l’alimentazione animale, causa principale della deforestazione.
In Africa, Congo e Angola bruciano “senza rumore”
Il Congo brucia dal mese di luglio. Senza far alcun rumore, come già avviene per le guerre, il ritorno dell’ebola e la depredazione delle risorse, a partire dal coltan. Le motivazioni sono le medesime della foresta amazzonica, ma qui, nella regione sub-sahariana, la politica ha difficoltà a gestire e controllare l’iniziativa privata. Inoltre, a differenza dell’attenzione mediatica sulle due precedenti foreste, qui manca qualsiasi interesse dei media. Il risultato è una situazione incontrollata ed incontrollabile.
Responsabilità vs. Sviluppo: oggi la “sostenibilità” non esiste!
La sostenibilità, concetto portato all’attenzione internazionale a Rio de Janeiro durante la Conferenza su ambiente e sviluppo (3-14 giugno 1992), è un concetto rivelatosi storicamente inutile. È usato ormai solo per calmare le coscienze scosse dagli effetti dello sviluppo, cercando sempre palliativi per rendere digeribile la distruzione furiosa frutto dell’assenza di limiti “sostenibili” allo sviluppo. Ormai è usato solo per dare una pennellata di verde al concetto molto discusso di sviluppo e crescita senza limiti.
Disarmiamo l’economia
Tutti insieme dobbiamo “disarmare l’economia”. Dobbiamo essere in grado di superare la ricerca di una sintesi ad ogni costo fra crescita economica e limiti. Infatti, come afferma Papa Francesco al paragrafo 193 dell’enciclica Laudato si’, “se in alcuni casi lo sviluppo sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri casi, di fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi”. Dobbiamo quindi superare gli slogan, buoni solo per il marketing o per qualche discorso pubblico che raccolga applausi, e andare oltre i concetti di sviluppo sostenibile, green economy ed economia circolare per raggiungere il nocciolo della questione: bisogna costruire responsabilmente il futuro senza cercare la crescita ad ogni costo. Diviene necessario rivedere il concetto di profitto, a partire dai bilanci delle imprese, incentivando la ricerca del bene comune rispetto all’egoismo degli obiettivi dei manager senza responsabilità verso la casa comune.
Da dove iniziare?
Nulla è impossibile, ma, per salvare le foreste, non basta diventare tutti vegetariani, non usare la plastica e usare l’auto ibrida facendo bene la differenziata a casa. Non bastiamo solo noi, ma bisogna ripartire dall’educazione e, per questo, ci vuole tempo. Bisogna cambiare il modo di produrre, di lavorare. Rivalutare il concetto di partecipazione rispetto a quello del vincere ad ogni costo.
Nell’immediato, invece, bisogna applicare il principio di responsabilità. Difficile? Forse sì, perché è più comodo parlare che fare. Ma il rischio che vedo dietro l’angolo è la tentazione di una dittatura ecologica, frutto di una ideologia, che nulla ha in comune con il desiderio di salvare il pianeta. Il rischio è che l’ansia di salvare velocemente il mondo, simile, nella struttura ideologica, a quella dei manager del profitto ad ogni costo, ci conduca sulla strada sbagliata!