Amazon, un fenomeno da conoscere bene
Amazon Italia, cioè le varie società che rappresentano nel nostro Paese il colosso statunitense del commercio on line, non ha potuto evitare l’incontro con i sindacati promosso giovedì 15 aprile dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Sono in gioco le pesanti condizioni di lavoro degli addetti della filiera che tra dipendenti diretti di Amazon (9.500), trasportatori e corrieri “esterni” raggiungono 40 mila persone, ma possono crescere ancora.
La pandemia è stata una fortuna per l’attività di consegna a domicilio della merce. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, è la persona più ricca della Terra, ma nell’anno della crisi mondiale da Covid 19 si è registrata, in generale, l’impennata del numero dei miliardari secondo la classifica di Forbes.
Il problema che inquieta di più è il potere di Amazon che ha saputo aggirare le normative antitrust, vigenti negli Usa, per soppiantare la concorrenza e finire per dettare le regole ad una platea crescente di venditori che sono costretti, di fatto, a rivolgersi ad Amazon per rimanere sul mercato. Sono solo alcuni spunti di un progetto di ricerca promosso su Amazon, sotto la guida del professor Pietro Terna, dal prestigioso Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi di Torino, un tempio del pensiero liberale fondato sul libero mercato (ma libero veramente). Un lavoro presentato on line assieme al direttore di Mondo economico, Francesco Antonioli.
Un primo approfondimento è stato prodotto dal ricercatore Daniele Ravasi. Una traccia da seguire per capire il modello di economia e di società che può diventare prevalente come dimostra la vittoria della posizione di Bezos, un liberal dei diritti civili ma contrario ai sindacati, nel referendum svoltosi il 29 marzo tra i lavoratori di un grande sito di Amazon in Alabama (6 mila addetti) che in grande maggioranza hanno votato contro la presenza del sindacato nella loto azienda. Se vigessero le stesse regole degli Usa, anche in Italia sarebbe molto difficile dare spazio ai rappresentanti dei lavoratori in stabilimenti dove il numero dei tesserati del sindacato è molto basso.
Come spiega Daniele Ravasi, «la tendenza strutturale, in molti dei settori chiave dell’economia, alla formazione di oligopoli o monopoli è uno dei pochi elementi di consenso condivisi tra le diverse scuole di pensiero economico, da Marx a Schumpeter. Diversa è l’analisi del fenomeno, ma soprattutto il giudizio di valore che se ne dà. Semplificando molto il discorso, uno dei motivi più comuni per cui si può formare un monopolio è che una grande azienda è in grado di offrire lo stesso prodotto a un prezzo più conveniente per via delle economie di scala o, come accade per Amazon e il capitalismo delle piattaforme in generale, la qualità del servizio aumenta all’aumentare del numero di utenti (effetto network)».
È ancora possibile intervenire? Secondo Ravasi «per anni il dibattito è stato molto più su se intervenire, piuttosto che su come intervenire. Le possibilità sono molte: dall’obbligo di interoperatibilità, di modo da trovare tutti i venditori di Amazon sugli altri siti, a un Amazon come common, à la Wikipedia».
Abbiamo posto perciò alcune domande al professor Pietro Terna e al ricercatore Daniele Ravasi (le risposte portano la sigla PT e DR).
La posizione dominante di Amazon che emerge dalla ricerca appare simile alla pervasività del complesso militar industriale denunciato dal presidente Eisenhower nel ‘61. Si tratta di un fenomeno che si può spiegare tradizionalmente solo con il prevalere delle lobby oppure è un difetto presente nello stesso sistema capitalistico che nessuna legge antitrust potrà contenere?
Eisenhower non era esattamente un sessantottino e a leggere ora la sua denuncia capiamo quanti passi indietro abbia fatto negli ultimi decenni quel Partito Repubblicano di cui era stato presidente, prima di diventare presidente degli Stati Uniti. Quello era un meccanismo di lobby per far spendere lo Stato acquistando sempre più armamenti. Ora abbiamo un meccanismo di captatio benevolentiae rivolto a noi singoli individui, che diventiamo utilizzatori quasi automatizzati di un unico venditore. Occorre alzare la voce e far capire che in gioco c’è molto di più dell’economia.
Per questo il Centro Einaudi di Torino ha avviato un filone di ricerca, cui partecipa Daniele Ravasi con me, per mettere in luce la gravità del problema. Shoshana Zuboff, l’autrice del ben noto “Il capitalismo della sorveglianza”, ha recentemente pubblicato (gennaio 2021) l’articolo “The Coup We Are Not Talking About”. Il titolo è ben interpretato dall’Internazionale di aprile con “Colpo di stato digitale”. Zuboff ha una certa tendenza a enfatizzare le questioni, ma in ogni caso il suo articolo è uscito sul New York Times, non sul Manifesto (PT)
È ancora possibile, davanti ad “una azienda che è diventata il mercato stesso”, un intervento del legislatore, come chiede la commissione giustizia del senato Usa, contro la libertà economiche e civili? Non si è dimostrato con il referendum in Alabama che anche l’appoggio pubblico di Biden è destinato a incidere poco su una struttura così consolidata?
È un grande problema di allarme sociale, rischiamo qualcosa di simile a quello che era il patto di Deng Xiaoping con i cinesi: lavorate e consumate, alla vostra vita pensa il partito. Cambiamo Deng con Bezos e partito con Amazon e il gioco è fatto.
Ma … abbiamo imparato che nella società e nell’economia le tendenze non sono per sempre. Chi avrebbe immaginato nel pieno dell’inflazione al 20% tra gli anni ’70 e ’80 che sarebbe arrivato un periodo di inflazione zero e tassi di interesse negativi? Guardiamo anche le tante “bolle” che sono esplose, ora ne stiamo vivendo una con la super valutazione di Wall Street, la follia delle criptovalute, la stravaganza della capitalizzazione di borsa di Amazon e dei suoi simili. Ma tutto può cambiare, prima ancora i consumatori decidano di votare con il portafoglio, cosa che per ora funziona limitatamente. (PT)
Se non è una questione risolvibile solo con il voto del portafoglio del consumatore, astrattamente in grado di scegliere da chi comprare, ma con l’azione dei lavoratori e delle istituzioni, è prevedibile la crescita delle lotte fino allo scontro violento, come accaduto a suo tempo alla Ford nel 1941? Oppure è possibile l’intervento legislativo, in discussione al congresso Usa, per il riconoscimento della presenza del sindacato in azienda (Protecting the Right to Organize Act)?
Penso che se c’è una lezione che ci viene dalla storia del conflitto fra capitale e lavoro è che la fermezza e la durezza della risposta operaia dipende molto più dal livello di coesione e conflittualità dei lavoratori che non dalla gravità della situazione. La lotta di classe c’è stata e l’hanno vinta i ricchi, e per il momento i lavoratori non sembrano cercare la rivincita. Ci sono però due fatti che giocano a favore dei sindacati: il primo è che per cause strutturali, dal bisogno di capillarità territoriale all’urbanistica dei magazzini, le aziende logistiche hanno vulnerabilità alla conflittualità operaia simili a quelle della vecchia fabbrica fordista, come le lotte nel distretto piacentino hanno mostrato. Dall’altro, Amazon si è fatta nemica i labouristi per lo sfruttamento del lavoro e i conservatori per la minaccia al piccolo commercio; non a caso esponenti repubblicani sostengono il sindacato in Alabama. Hanno vinto un round truccando le elezioni, ma la partita è aperta (DR).
Fino a quando il potere di Amazon nei confronti dei venditori per abbassare i loro prezzi si tradurrà nel “paradiso dei consumatori”? Non è fisiologico abusare anche a livello elettorale da tale posizione di monopolio?
Possiamo solo sperare che a Seattle (sede centrale di Amazon, ndr) stiano continuando a seminare senza mietere perché il costo del denaro a zero gli fornisce semenza gratis e sperano in un raccolto come mai prima d’ora. Eppure troppi segnali su Big Tech (le 5 maggiori multinazionali occidentali dell’IT: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) fanno tremare i polsi, tant’è che ormai la commissione antitrust USA ne parla come pericolo per la democrazia.
Amazon ha in mano metà dell’editoria USA, sa meglio di chiunque altro chi legge cosa e può affossare qualsiasi libro con un ritocchino agli algoritmi di Kindle che nessuno noterà mai. Intorno ai guru della Silicon Valley, penso a Elon Musk, si formano culti della personalità che invocano la tecnocrazia degli smart guys ( i tipi intelligenti, ndr) come panacea di tutti i mali. Lo scandalo di Cambridge Analytica ci ha mostrato come i big data possono manipolare delle elezioni. Non dobbiamo chiederci se Bezos voglia candidarsi alle prossime elezioni. Dobbiamo togliergli il potere di deciderne il risultato. (DR)
In che modo la crescita bulimica di tali tipologie di società potrà condurre ad una bolla speculativa (valori finanziari che crescono troppo per poi svanire) che rischia di innescare una grave recessione economica?
La bolla c’è già e stiamo seduti a guardarla. Dovremmo frenare il denaro facile, ma la pandemia ci obbliga a finanziare in deficit il salvataggio dell’economia, quindi creando sempre più liquidità. L’unica speranza è che la ripresa produttiva ci sia e sia tanto solida da non essere travolta dall’inevitabile sgonfiamento, speriamo saggiamente pilotato, della bolla. (PT)