Amare umilmente sé stessi
Essere scacciati fa parte del doloroso patrimonio dell’esistenza ebraica. Fuggire – soprattutto da sé stessi – è un’esperienza ben più universale. Questo sorprendente libro, scritto nel 1932, parla di un giovane ebreo che, schiacciato dall’eterno travaglio tra tensione spirituale (verso Dio) e passione per una donna (sposata), non riescea fare una scelta, a trovare un equilibrio in sé stesso.
E cerca nella fuga, nella vita errante, nel silenzio, nell’ostinazione della preghiera, nel farsi passare per tonto (kalbsignifica tonto), un’improbabile soluzione. Che ovviamente non viene. Yoshe si perde in questa fuga, invece di trovarsi. È un santo o un peccatore? Lui non lo sa, gli altri non riescono a capirlo, si formano partiti di sostenitori e detrattori. Alla domanda: «Chi sei?», fatta da settanta rabbini arrivati da Polonia e Galizia, per venire a capo del suo strano caso, risponde: «Non lo so». Yoshe continua a fuggire, non riesce ad accettare sé stesso.
Non c’è nulla di più difficile di accettarci così come Dio ci ha fatti, di amare umilmente sé stessi, di guardare alla propria (apparente) miseria e frammentazione con gli occhi innamorati con cui Dio la guarda. La storia di Yoshe, che nel suo silenzioso e incomprensibile peregrinare diventa bigamo, è tratta da una vicenda vera.
Israel Joshua Singer, fratello del Premio Nobel Isaac Bashevis Singer, la racconta con eccezionale maestria, presentando un mondo ebraico che pare assurdo, eccessivo, improbabile, anacronistico, ma alimentato da un incredibile fervore di fede, seppur mescolato alle bassezze umane che sempre accompagnano ogni esperienza spirituale. Un mondo, quello ebreo hassidico, che nell’Est Europa è stato cancellato dalla diabolica furia nazista. Il che rende i racconti di questo libro ancora più preziosi.