Amare per far conoscere Gesù

La chiamata di un giovane missionario. Tutta la vita centrata sull’amore. Il Vangelo vissuto base dell’annuncio. Nell’unità l’esperienza di Gesù in mezzo ai suoi che realizza la missione ad gentes.
Matteo Rebecchi

Forse frequentavo ancora le scuole medie. Stavo lavando un bicchiere e lo stavo facendo per aiutare mamma, evitando, come al solito, di lasciare piatti e bicchieri sporchi nel lavello per farlo fare a lei. Mentre riponevo il bicchiere a scolare, d’improvviso ho avuto un pensiero: “Che bello sarebbe poter amare veramente una donna!”. E poi, di rimbalzo, subito un altro: “Ma come sarebbe ancor più bello poter amare Dio come mio unico tutto!”. Ricordo molto bene questo momento che ritengo sia stato uno dei primi segni della mia chiamata alla vita consacrata e, ancor di più, a vivere l’amore di Dio e del fratello come vocazione fondamentale di cristiano.

Durante gli studi universitari frequentavo un gruppo di giovani legati alla casa religiosa dei Missionari Saveriani di Cremona. Fu lì che per la prima volta mi accostai alla realtà della missione. Noi giovani eravamo entusiasti di poter fare qualcosa per i poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Io sentivo crescere dentro di me un desiderio di radicalità. Dovendo scegliere l’indirizzo universitario la decisione fu per agraria, perché che volevo prepararmi a servire in un paese povero.

Nello stesso tempo non sapevo come realizzare il desiderio della missione. Volevo partire, ma come: missionario consacrato, volontario, sposato, per qualche anno o per sempre? Sentivo il desiderio di donarmi, però mi sentivo anche preoccupato di fare una scelta che, forse un po’ egoisticamente, potesse realizzarmi. Alcuni saveriani mi avevano proposto di fare il salto e di entrare in Istituto, ma avevo sempre detto di no. 

Fu in quel periodo che conobbi la spiritualità dell’unità attraverso un religioso saveriano. Era appena tornato dal Brasile ed era convalescente. Stando con lui sentivo un amore molto personale, un ascolto profondo e mi sembrava di percepire la bellezza del suo rapporto con Dio.

Esprimendogli il mio travaglio interiore, e anche la disponibilità a farmi saveriano, qualora fosse stata la volontà di Dio, un giorno egli mi sorprese dicendomi: “Prima di pensare alla tua vocazione devi imparare ad amare!” Fu una risposta illuminante, che mi diede pace e che sento tuttora valida per la mia vita di oggi.

Il modo di lavorare insieme con un confratello, che con lui guidava il nostro gruppo, ci aiutava a vedere e a capire meglio quella vita di comunione che come giovani avevamo appena conosciuto e desideravamo sperimentare. Così ci si incontrava per aiutarci vicendevolmente a vivere la Parola di vita e per scambiarci le esperienze che nascevano dal Vangelo vissuto. Mi ricordo l’entusiasmo con cui ci si incontrava e la profondità dei rapporti creati tra noi giovani.

Pur essendo molto impegnato in parrocchia, capivo che dovevo amare tutti, compresi i miei familiari. Iniziai a lavare le scodelle dopo colazione e a rifarmi la stanza senza lasciarlo fare a mamma. Poi mi accorsi che nel gruppo non ero stato l’unico a fare questo passo.

Iniziammo ad accostare gli immigrati della città, si facevano incontri di animazione missionaria mensile per la diocesi, i “Mission Days” che radunavano giovani italiani e immigrati. Qualcuno, toccato dalla nostra testimonianza, chiese il battesimo. Un giorno, con trepidazione, varcai da solo il pesante portone del consolato cinese di Milano per vedere se era possibile riottenere i documenti di un amico, scappato dopo le vicende di Tienammen. Dal gruppo iniziavano intanto a nascere anche alcune vocazioni missionarie, realizzate poi in Cina, Filippine, Indonesia e naturalmente anche in Italia, per tanti che non sono partiti.

Mi sentivo sempre di più in pace e la preoccupazione per la vocazione era sempre meno forte: ero contento di vivere semplicemente da cristiano, insieme ad altri cristiani. In quel periodo sentii di nuovo la chiamata. Mi ricordo che la Parola di vita che stavamo vivendo in modo speciale quel mese era “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10). Sulla spinta dell’esperienza di san Paolo, semplicemente, dissi il mio “sì”. 

Entrare in un Istituto religioso fu quindi quasi la naturale conseguenza del cambiamento di vita che era già avvenuto qualche anno prima. Avevo cambiato casa, ma in fondo la scelta fondamentale di amare Dio e i fratelli era la stessa. Nella prima comunità c’era un fratello laico che si occupava del giardino, abbastanza anziano e un po’ scorbutico. Faceva fatica a credere che noi giovani potessimo fare qualcosa di positivo. Desideravo amarlo come un fratello, ma non era facile.

Un giorno mi offrii di aiutarlo a potare una vite, dato che per lui era pericoloso stare sulla scala. Lavoravo e intanto lo vedevo spiarmi dalla sua finestra per controllare il lavoro. Ero sicuro che nonostante il mio impegno lo avrei deluso. Invece, appena finita la potatura, mi ha chiamato nella sua stanza e, senza dire una parola, ha aperto una scatola che custodiva gelosamente e mi ha regalato in segno di riconoscenza un bel coltello. 

Ho ricevuto poi la grazia di vivere alcuni anni nella missione delle isole Mentawai, al largo di Sumatra, in Indonesia: un posto remoto, senza molte comunicazioni con il resto del mondo, con una cultura tradizionale e ancora di fresca evangelizzazione. Con alcuni giovani del posto ci incontravamo regolarmente per comunicarci le esperienze della Parola di vita e riflettere su di essa. Ho visto che il Vangelo, soprattutto se lo si vive concretamente, è adatto a tutte le culture e fa bene a tutti, compresi i Mentawaiani.

Un giorno una ragazza aveva sentito che Dio le chiedeva di dover fare il passo di donare qualcosa per i poveri. Ma cosa fare, visto che lì sono più o meno tutti poveri, compresa lei? Pensandoci, si è ricordata di un’anziana signora musulmana, ormai incapace di camminare, abbandonata dalla famiglia e spesso lasciata senza cibo.

Allora è andata a casa, ha preso alcuni vestiti dal suo “guardaroba” e si è avviata a casa dell’anziana signora. Appena entrata, le ha porto il pacchetto dicendo che era un regalo per lei. Colta di sorpresa, la signora l’ha ringraziata dicendo: “Ma allora non è vero che qui nessuno mi vuole bene. Tu mi vuoi bene perché mi hai portato questi vestiti”. La ragazza proprio non se l’aspettava e sentendo queste parole è scoppiata a piangere di gioia. Era ancora commossa quando poi ha raccontato questa esperienza agli altri giovani: era la gioia che scaturisce dal Vangelo vissuto. E io capivo che missione significa dare a tanti la possibilità di sperimentare questa felicità profonda. 

Il Vangelo ha rivoluzionato tutti gli aspetti della mia vita. Conoscendo la spiritualità dell’unità ho capito che il Vangelo mi chiede di convertirmi anche nel mio modo di vestire e di mantenere la casa, in modo che si realizzi l’armonia. Pensavo però che questo fatto avesse il solo scopo della buona accoglienza dei fratelli.

Un giorno un amico musulmano è venuto a trovarmi e, vedendo i pavimenti lucidi della nostra casa, è rimasto sorpreso e ha commentato: “Secondo l’Islam, la pulizia è parte della fede. Eppure le nostre moschee sono spesso lasciate andare, mentre qui si vede tanta pulizia e ordine!”. Ho fatto subito sapere al superiore della casa questo suo commento e soprattutto mi sono reso conto che, se viviamo il Vangelo, anche se non sempre possiamo parlare, possiamo però sempre annunciare attraverso la nostra vita. E così perfino i pavimenti parlano. 

Per un certo periodo sentivo che le attività di apostolato non portavano i frutti sperati. Sperimentavo il fallimento e la delusione e chiesi a Dio il perché di tanto impegno apparentemente inutile. In quei giorni la meditazione della Parola di vita mi aveva aiutato ad affidare tutto a Dio e a rimettendomi ad amare nella pace, sicuro che l’amore non fosse mai inutile, e sperimentando una nuova libertà nell’anima.

Una sera ricevo la telefonata di un giovane buddista indonesiano che conoscevo molto bene. Mi racconta dell’esperienza che sta facendo a Loppiano dove, da qualche mese, sta approfondendo la spiritualità dell’unità. Era felicissimo, tanto da voler condividere con me la grazia che sta vivendo. Mentre stavo ancora parlando al telefono, sento una grande gioia e capisco che Dio usa il nostro amore dove vuole e lo fa fruttare nelle situazioni più inaspettate.

Ho capito meglio che il compito del missionario è quello di dare la vita senza aspettarsi nulla in cambio, come Maria sotto la croce, lasciando a Dio di decidere dove far fruttare la carità. L’incontro con la spiritualità dell’unità è stato per me una grazia straordinaria. Posso dire che la mia vocazione sia nata dal rapporto tra il carisma saveriano e quello dell’unità, tanto che se non avessi conosciuto il focolare, forse oggi non sarei missionario.

Inoltre vedo anche nella concretezza della vita di tutti i giorni come il carisma dell’unità mi spinge a portare comunione sia nella mia congregazione, sia nel rapporto con ogni fratello che Dio mi mette accanto. Ho anche constatato che vivere con la presenza di Gesù tra noi, frutto dell’unità, mi fa realizzare la missione ad gentes che rappresenta il mio carisma specifico saveriano.

L’ho capito meglio durante una Mariapoli quando, dopo aver sentito un tema su Gesù crocifisso e abbandonato, una ragazza musulmana diceva che finalmente aveva capito il significato della croce per noi cristiani. Aveva compreso, grazie alla luce di Gesù tra noi, che abbracciando la croce poteva vivere meglio il dolore e trasformarlo in amore. Il clima dell’unità aveva aperto gli occhi ad una persona non cristiana.

A me Dio chiede proprio di realizzare l’unità, perché, come saveriano, sono chiamato a dare la vita per annunciare il Vangelo a chi non conosce ancora Gesù.

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