Alzare lo sguardo, verso l’alba

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Affrontare il passato, quando è doloroso, fa paura. È calarsi nella notte. Più facile è dimenticare, voltare frettolosamente pagina. Così nella vita singola, di ciascuno. Così nella vita pubblica, degli Stati e dei gruppi. C’è una certa saggezza nell’andare avanti, nel non ancorarsi a rimuginare il passato. Ma i fantasmi generati da quello che è accaduto non scompaiono mai. Se ne stanno accovacciati nella penombra dell’anima o della coscienza nazionale. Lì, nella semioscurità, scavano, rodono. Sono pazienti, sanno aspettare per anni, per decenni -sanno vivere come microbi -, poi all’improvviso riappaiono con la statura sconcertante di giganti. Ricordando una verità ineluttabile: è necessario confrontarsi con tutto quello che ha a che fare con la propria vita, personale e collettiva; non ci sono scappatoie a quello che appare un doloroso passaggio da attraversare. Qualcosa di analogo accade nel percorso della conversione: esso inizia sempre con l’amara constatazione dei peccati, col guardarli in faccia per quello che sono. Solo così si può intraprendere un nuovo cammino. L’Italia ha avuto una sua notte. E questa ha generato fantasmi d’odio, di ipocrisie, di menzogne propinate come inossidabili verità. È la notte degli anni di piombo, degli opposti estremismi. Che dal ’69, con la strage di piazza Fontana, fino a metà degli anni Ottanta e con strascichi negli anni 2000, ha mietuto un amaro bilancio di morti e di feriti rimasti invalidi (vedi riquadro). Sull’altro piatto della bilancia, migliaia di giovani – 40 mila coinvolti, 5 mila processati – che, inneggiando al mito del terrorismo, hanno propugnato l’ideologia della lotta armata per innescare un’assurda rivoluzione. Sono stati assassinati funzionari dello Stato e giornalisti, dirigenti d’azienda e operai, giovani di destra e di sinistra, comuni cittadini casualmente coinvolti nelle stragi. Non si può dimenticare Aldo Moro, che dalla prigionia scriveva alla moglie: Mia dolcissima Noretta… Tu curati e cerca di essere più tranquilla che puoi. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo. E così: Antonio Custra, vicebrigadiere di ventidue anni, che fu ucciso dal proiettile d’un giovane con il capo coperto dal passamontagna e fotografato in un’immagine che ri- mane triste icona di quegli anni; Emilio Alessandrini ucciso perché colpevole di aver reso più efficiente la procura di Milano; Luigi Marangoni, ucciso perché voleva un ospedale più funzionante e non sopportava che venisse buttato via il sangue o si facessero affari sui morti. Alcuni nomi sono rimasti celebri, altri meno. Tanti di questi sono stati rapidamente dimenticati. E con essi coloro che sono genericamente chiamati i parenti delle vittime, le mogli, i figli, i genitori. Persone mansuete, con senso dello Stato, spesso troppo discrete per far sentire la propria voce, che hanno vissuto in dignitoso silenzio le loro tragedie. Essi rimangono un gruppo estraneo e quasi un po’ fastidioso. Forse perché la loro presenza ricorda eventi troppo dolorosi e talvolta ancora insondati, pagine imbarazzanti, che si vorrebbero strappare dai libri della nostra storia. Col tempo, assurdamente, la ribalta è andata più ai carnefici che alle vittime. Pensando a quei fatti, vengono in mente le parole di Giampaolo Pansa: Quegli anni feroci ci hanno cambiati tutti e in peggio. Ci hanno reso più aridi di cuore, brutalmente ansiosi di dimenticare, di fare piazza pulita delle ombre dei morti e anche dei volti di chi è ri masto vivo. Sento spesso dire che siamo stati poco garantisti con chi voleva fare la rivoluzione e ha sparato. Non so dire se sia davvero così. Ma so per certo che siamo stati poco umani con le mogli, i figli e i genitori di chi è stato ucciso. Ma quegli anni hanno anche testimoniato l’indomito senso di speranza che anima tanta parte della nostra nazione. Come non ricordare con commozione le parole proferite da Giovanni Bachelet durante i funerali del padre Vittorio, vittima del terrorismo: Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta di morte degli altri. Ora è Mario Calabresi a farci risfogliare quelle pagine di storia. Lui, figlio del commissario Luigi Calabresi assassinato a Milano nel 1972, s’è addentrato dentro i fantasmi personali e collettivi di quelle tristi vicende. E ha scritto un libro che ha ottenuto un grande successo senza battage pubblicitario: Spingendo la notte più in là (Mondadori). Un libro che non è un piangersi addosso, ma un atto di lucido coraggio: guardare al passato per ricucire dentro alla propria anima e alla propria mente le ferite provocate dai rancori. È la storia d’un bambino e di sua mamma Gemma: una donna giovanissima che è incinta quando le uccidono il marito, e cresce i tre figli rimasti orfani prima d’aver conosciuto davvero il papà. Una donna che, sempre tenendo nel cassetto la rosa che il marito Luigi le aveva dato il giorno prima di essere ucciso, continuò a vivere e sperare; che si risposò ed ebbe un quarto figlio. E continuò a rassicurare i figli, insegnando caparbiamente a non odiare. Ma questo libro è anche la storia d’uno spaccato d’Italia: i nomi di Pinelli – che la sinistra extraparlamentare riteneva ucciso dal commissario – e quelli di Sofri, Pietrostefani e Bompressi rimarranno accomunati per sempre al nome di Calabresi. Gerardo D’Ambrosio, che divenne senatore dell’Ulivo, era allora il giudice istruttore che insieme ai pm Luigi Fiasconaro e Emilio Alessandrini indagò sia su piazza Fontana che sulla morte di Pinelli. In una intervista a Mario Calabresi, affermò: Se il giudice che è riuscito a togliere qualsiasi dubbio sugli anarchici come autori della strage di piazza Fontana, che ha detto che sono stati i fascisti, e ha rischiata la pelle per questo insieme ad Alessandrini, se uno così dice che non ci sono prove che Pinelli è stato ucciso e che anzi tutto depone per una precipitazione per malore… Gli atti giudiziari sono quelli e, ripeto, ci sono prove inconfutabili. In quel momento scrissero sui muri che ero fascista. Poi quando dissi che non erano stati gli anarchici a mettere le bombe, allora dissero che ero comunista. Questa è l’Italia. L’ideologia è un fantasma potente che annebbia gli spiriti, che insinua subdoli preconcetti anche nella ragione più lucida e che, su certi temi, rende ottuse le menti più originali. Spesso ne siamo vittime, a volte inconsapevoli. Guardare con franchezza a quegli anni e a quei fatti può servire a liberarsi dalle oscure trappole di questa strisciante malattia.Un’occasione la può dare la celebrazione del 9 maggio – data dell’assassinio di Moro – oggi riconosciuta come Giorno della Memoria per tutte le vittime del terrorismo, al fine di conservare, rinnovare e costruire una memoria storica condivisa in difesa delle istituzioni democratiche. Il suo personale liberarsi dai fantasmi dell’ideologia e dell’odio,Mario Calabresi lo racconta confidandoci un momento intensamente intimo. Quando un giorno salì da solo verso l’Anguille Noire, una parete di roccia che si slancia ardita nel massiccio del Monte Bianco. Era un posto a lui caro, dove il nonno gli aveva fatto preziose confidenze. E lì… fermo, con gli occhi sul ghiaccio prima trovai il nonno, poi papà Gigi. Rimasi ad ascoltarlo a lungo e sentii che era giusto guardare avanti, camminare, impegnarsi per voltare pagina nel rispetto della memoria. Dovevo portarlo con me nel mondo, non umiliarlo nelle polemiche e nella rabbia, così non l’avrei tradito. Bisognava scommettere tutto sull’amore per la vita. Non ho più cambiato idea. Da lì s’accorse che la notte poteva essere spinta un poco più in là. Che si poteva nuovamente respirare aria pura, frizzante dell’azzurro del cielo montano. Lanciando a ciascuno un silenzioso quanto prezioso invito, di trovare la propria Anguille Noire.

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