Alza la testa
L’opera seconda del romano Alessandro Angelini, che al Festival di Roma ha esordito nel 2006 con L’aria salata, per quanto variamente giudicata dalla critica, appare uno sviluppo ed un approfondimento molto bello della sua opera precedente. Angelini allarga l’orizzonte degli interessi umani, scrivendo una storia che è, in qualche modo, di morte e resurrezione. Si spende questa volta sulla figura di un uomo – un Sergio Castellitto in stato di grazia –, marito separato che detesta la moglie albanese, un padre-madre fin troppo premuroso col figlio diciassettenne; un uomo solo che vive col suo gruppo di amicizie virili (bella la prova di Giorgio Colangeli) la propria vita di operaio nel quartiere di Fiumicino. Mero, così si chiama, istruisce nella boxe il figlio, con una tenacia ossessiva ed il ragazzo, dallo sguardo molto tenero e timido (l’esordiente Gabriele Campanelli), lo segue. Fino alla sua morte per un incidente.
A questo punto il film volta pagina e dilata lo sguardo. Mero, ferito dalla vita, che ha donato il cuore del figlio ad un ignoto, cerca questa persona e la trova a Gorizia: una figura dolente – “vissuta” profondamente da Anita Kravos – che lo immette in un mondo di immigrazione e di sofferenza che egli non conosce. Fino a quando, dopo il dolore e la chiusura egoista, Mero scopre la possibilità di una seconda possibilità di vita, forse di una speranza.
Angelini, come sempre, non rinuncia allo stile asciutto, nervoso, all’amore per le luminosità grigie, per la natura che commenta le scene, e per gli occhi dei suoi personaggi, i quali parlano da soli. Così che il film diventa un piccolo poema sull’umanità dei nostri tempi, una riflessione attenta che, senza aver l’aria di esserlo, commuove ed anche può stordire per la sua verità, raccontata con una semplicità che arriva dritta al cuore. In sala ai primi di novembre, questo è un film che fa discutere, ma, a ben vedere, non si può non amare.