Altro che scontro di civiltà!
A che punto siamo sul fronte dello scontro di civiltà? La crisi economica sembra avere tolto fiato ai tribuni del conflitto epocale. Persino il politologo Fareed Zakaria, allievo del padre della teoria dello scontro tra civiltà, Samuel Huntington, prende le distanze dal maestro, sottolineando piuttosto la nascita di Un mondo post-americano, come titola un suo libro, meno portato allo scontro e più alla mediazione. Tre sembrano i fronti più delicati da analizzare in questo contesto: il confronto tra mondo islamico e Occidente; il duello delle economie del G8 con le economie emergenti; la grande sfida dell’immigrazione. Quest’ultima è forse la sfida che oggi più attira l’attenzione in casa nostra. È ormai una questione vissuta sui pianerottoli e nelle periferie: un agente di polizia uccide un vicino senegalese a Civitavecchia; un branco di rumeni stupra a Guidonia una giovane donna italiana; tre drogati di periferia bruciano a Nettuno un indiano che dorme su una panchina per provare emozioni forti… Funzionano appieno le regole mediatiche: le notizie di sangue-sesso-soldi fanno audience. Ma ormai pochi pensano qui da noi che si possa vivere senza immigrati, soprattutto guardando al contesto internazionale: si alza lo sguardo, ed ecco che anche i repubblicani statunitensi eleggono alla loro guida un nero, Michael Steele; mentre i governi europei contano ministri di tutti i colori e Rotterdam elegge un sindaco marocchino… Il meticciato figlio dell’immigrazione è ormai realtà, malgrado i rigurgiti xenofobi e razzisti. Le proteste inglesi contro le maestranze straniere che tolgono lavoro agli indigeni appaiono battaglie di retroguardia, seppur inquietanti. Secondo fronte. La crisi economica globale, che provoca inediti sommovimenti, sta portando alla ridefinizione dei rapporti dei Paesi ricchi con le economie emergenti. Ormai, si parla di G20 al posto del G8, segno che anche nella finanza e nell’economia Cina, India, Brasile e Sud Africa non sono più solo concorrenti temuti, ma considerati ormai partner da rispettare. Senza di loro non è pensabile uscire dalla crisi: basti considerare che i diversi operatori economici cinesi hanno acquistato un’elevata percentuale del debito statunitense, si parla del 14-18 per cento. Il fronte più virulento è ancora, comunque, quello delle relazioni tra il mondo musulmano e quello occidentale. Anche qui, però, le previsioni catastrofiche sono state smentite: se il terrorismo mantiene le sue minacce, colpisce però di meno (vedi la denuncia di Loretta Napoleoni, una delle massime esperte mondiali in materia, sulle false previsioni delle potenzialità del terrorismo islamista) e i segnali di riavvicinamento si moltiplicano. Basti pensare alle prime mosse di Barack Hossein Obama (un nome, un programma!), una mano tesa verso il mondo musulmano e arabo; basti considerare le numerosissime iniziative di dialogo interculturale e interreligioso, non ultime quelle vaticane; basti ancora immergersi nella quotidianità dei Paesi arabi mediterranei per accorgersi che i media stanno anche lì cambiando le cose, accorciando le distanze col mondo occidentale. Il maggior islamologo vivente, Bernard Lewis, sostiene che il processo di apertura nel mondo musulmano è lento, ma che non si deve considerare tutto sotto la lente del fondamentalismo. Insomma, più che di scontro di civiltà – già sul concetto di civiltà e sui loro confini gli intellettuali si azzuffano – mi sembra che si debba parlare di popoli che si studiano, si confrontano e si determinano al negoziato per una convivenza che appare ormai inevitabile. Certo, il negoziato non è ancora vero dialogo, ma è almeno una sua premessa, come dice il massmediologo francese Wolton. C’è da credergli.i