Alti e bassi del festival
Si può parlare di Dio, o meglio delle “Parole o discorsi sugli dei”(Words with Gods) come fanno ben 9 registi in un solo film di oltre due, velocissime, ore? Si può. Soprattutto se a farlo sono autori che non rinunciando al loro stile, ne dicono con fantasia e rispetto.
Si parte dalla religione degli aborigeni australiani del filmato di Warwick Thornton dove si racconta della ragazza che partorisce nel deserto sotto un albero-divinità della natura, fra spazi assolati dove la vita sembrerebbe morire e che invece rinasce. Poi si va in Brasile fra le mescolanze di riti dove un uomo disperato trova in essi la forza di risorgere nudo come quando è nato (film di Hector Babenco).
In India Mira Nair esplora il contrasto generazionale fra gli anziani attaccati alla religione e le nuove leve che corrono dietro al successo e all’Occidente. Poi è la volta del mondo buddista del giapponese Hideo Nakata in cui il pescatore s’interroga sul perché del dolore e della morte che si è presa moglie e figli: la risposta sta nell’accettazione della sofferenza. Amos Gitai ci porta in Israele ed affida al canto dei salmi e delle profezie di Amos le speranze sullo sfondo della guerra, con una drammaticità lirica intensissima. Tocca poi al mondo cattolico spagnolo che Alex de la Iglesia racconta nella confessione surreale tra un morente ateo e un delinquente in fuga: rispettosamente ironico. Emir Kusturica invece interpreta un monaco ortodosso che tenta la scalata al monte della santità con occhi di fuoco e Guillermo Arriaga parla della suicidio di Dio che genera una pioggia di sangue nel mondo ateo. Prospettive molto diverse, sguardi disincantati e con un pizzico di ironia – pericolosa? – nell’episodio diretto da Baham Ghobadi sui due fratelli siamesi in dialogo nella moschea, uno ateo e l’altro credente. Il film con tutta la sua originalità, piace e rappresenta un occhio diverso sulla Laguna.
Torniamo al mèlo invece con 3 Coeurs del francese Benoit Jacquot e occorre dire che il cinema dei nostri cugini, in ogni genere, sa essere raffinato. Il grigio impiegato che s’innamora di Sylvie, ma poi ne sposa la sorella, con gli inevitabili drammi sentimentali di fedeltà-infedeltà è una acuta analisi psicologica dell’amore e della morte. Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni insieme a Charlotte Gainsburg formano un trio di donne che danno anima e corpo al racconto, privo di affettazione, misuratissimo nelle esplosioni di passione, perché la regia è scrupolosa, sobria, come si addice ad un film di interni ma più che altro dell’anima.
E chiudiamo con la superstar Al Pacino. Il divo si prende tutto lo schermo nel logorroico Manglehorn di The Humbling di David Gordon Green in cui dà vita – e parole – all’inselvatichito misantropo fabbro, innamorato solo della sua gatta e chiuso nei ricordi della donna del passato. Vecchio e solo non ama nessuno, è rabbioso anche col figlio cui nega aiuto e che non sa amare. L’amore verrebbe ma non lo sa riconoscere, finché… Un film sulla vecchiaia a cui la maschera distrutta di Al dà forza, ma che ha il torto di scivolare nella verbosità retorica fatta apposta per la star. Che peccato anche il melenso finale!
Speriamo meglio per oggi e lunedì, giornate gloriose del cinema italiano.