Alta qualità o asini in cattedra

In questi anni negli atenei non sono stati i migliori a salire in cattedra anche a causa della mancanza di trasparenza degli attuali concorsi. Perché diventino professori i migliori occorreva cambiare le regole. Noi lo abbiamo fatto. Così il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti ha commentato l’approvazione in via de- finitiva, da parte della Camera, della nuova legge sul reclutamento dei professori universitari. Di parere esattamente opposto il prof. Piero Tosi, presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane, che ritiene la nuova legge inaccettabile: Chi ancora si ostina ad attribuire a lobby e corporazioni ciò che invece rappresenta il sentimento comune e gli umori delle università probabilmente non conosce il sistema accademico e la sua profonda preoccupazione, ma si limita a parlare e a scrivere ignorando quanto concretamente accade negli Atenei del paese. La contestazione si è fatta sentire sia fuori dell’università, con una presenza davanti alla Camera proprio mentre questa votava, sia dentro, dato il permanere dello stato di agitazione in molte sedi. Che sia necessario intervenire sull’università italiana, non c’è dubbio, come confermano le graduatorie internazionali che stabiliscono quali sono le migliori università. Per stilarle, si tiene conto delle pubblicazioni scientifiche prodotte dagli insegnanti e dei premi relativi (Nobel e altri), delle valutazioni espresse da esponenti del mondo accademico raccolte attraverso sondaggi, della qualità didattica, dell’internazionalizzazione, cioè della percentuale di insegnanti e studenti che hanno scelto quell’università provenendo da altri paesi, dei risultati raggiunti dagli ex studenti. Una delle ricerche più recenti e accurate, condotta dall’università Jiao Tong di Shanghai, attesta la schiacciante supremazia statunitense, con le 17 migliori università sulle prime 20. Solo due le europee al vertice: le inglesi Cambridge (secondo posto) e Oxford (decimo). La prima delle giapponesi, l’università di Tokyo, è al ventesimo. Per trovare un’università italiana in classifica bisogna raggiungere il 93° posto, dove si colloca la Sapienza di Roma. Collocazione mediocre È vero che queste graduatorie spesso non sono precise; l’inchiesta cinese, ad esempio, riguarda solo l’area delle scienze classiche e non si occupa di quelle sociali, e che guarda alle università nel loro insieme e non distingue i diversi dipartimenti. Ma è vero anche che diverse valutazioni di diversi istituti, condotte anche in modo dettagliato, confermano grosso modo, per quanto riguarda gli atenei italiani, la posizione attribuitaci dagli studiosi di Shanghai. E non si tratta di una discriminazione nei confronti dell’Europa: sulle prime cento classificate, 36 sono le università del Vecchio Continente, anche se nessuna di esse appartiene ai paesi nuovi entrati nell’Unione. La Sapienza di Roma è l’unica, nelle prime cento, dell’area mediterranea. Nel mio campo – commenta il prof. Benedetto Gui, ordinario di Economia politica all’università di Padova, direttore del Dipartimento di Scienza economica – per trovare la prima università italiana nella lista delle europee devi andare verso l’ottantesima posizione. Questa è la situazione. Nelle nostre sedi si fa un discreto lavoro; i nostri laureati non si trovano affatto male quando vanno all’estero, anzi. Diciamo che le nostre università fanno un buon lavoro fino alla laurea. Bisognerebbe alzare la qualità del lavoro successivo. In altre parole, i nostri laureati, dopo avere ricevuto una valida preparazione di base in Italia, se vogliono fare ricerca di alto livello, finiscono per trovare spazio e opportunità proprio in quelle università che stanno ai primi posti delle graduatorie, e che ci rimarranno anche e soprattutto grazie alla loro capacità di attirare gli studenti e i ricercatori migliori da tutto il mondo. Nel nostro paese esistono certamente alcuni centri dove si fa ricerca ad alto livello, ma si tratta di situazioni di eccellenza che non posano su un sistema diffuso, ma su circostanze create da eccezionali (a volte eroiche) iniziative particolari. Quel che manca, appunto, è il sistema capace di attirare e promuovere i migliori, anche se proprio questo è uno dei temi centrali dei discorsi che, negli ultimi anni, si sono occupati di riforma universitaria. È chiaro che qui tocchiamo un punto dolente, che richiama proprio le parole del ministro Moratti circa la capacità, da parte delle università italiane, di selezionare i docenti: In Italia, in passato – spiega il prof. Gui -, avevamo grandi concorsi nazionali; questi, negli anni recenti, sono stati sostituiti da concorsi locali, cioè gestiti dalle singole sedi universitarie, ma in un contesto privo di responsabilizzazione, nel quale il rischio è che si sistemino gli amici, i portaborse, le amanti, ecc. Ed è proprio ciò che è avvenuto, provocando un degrado di qualità. In questa situazione, è frequente che giovani, anche molto dotati, non trovino spazio. Il nepotismo e le clientele locali creano un danno sociale enorme, poiché impediscono che il ricambio generazionale porti con sé un progresso qualitativo. Eppure, non è il localismo in sé a fare il danno: un concorso promosso da una sede universitaria potrebbe benissimo portare a buoni risultati: Negli Stati Uniti e nel Regno Unito – prosegue Gui – i concorsi sono tutti locali; l’università crea un comitato che seleziona i candidati, nella massima libertà. Ma lì questo sistema funziona perché le sedi sono fortemente responsabilizzate; infatti, se prendono le persone sbagliate i loro risultati si abbassano, calano nelle classifiche, hanno meno fondi, attirano meno studenti, ecc. Neppure questa procedura è perfetta, ma rimane il fatto che, in generale, hanno tutto l’interesse a scegliere i migliori. Le novità della legge Le nuove regole introdotte dal parlamento prevedono, anzitutto, che tutti coloro che aspirano alla docenza passino il vaglio di un concorso di idoneità scientifica nazionale: le commissioni esaminatrici saranno costituite sorteggiando i commissari da una lista nazionale; le università potranno poi scegliere i loro docenti tra coloro che saranno giudicati idonei. Come si vede, la nuova legge propone un sistema misto, che unisce una selezione nazionale ad una dimensione locale. Così, d’ora in poi, si creeranno i professori associati e ordinari. Un secondo punto rilevante delle nuove norme riguarda la possibilità, per le università, di stabilire contratti, chiaramente destinati ai giovani, per svolgere attività di ricerca e di didattica integrativa (art. 1, 14); tali contratti possono essere rinnovati fino a un massimo di sei anni: a quel punto il giovane viene acquisito come docente dall’università, superando il relativo concorso di idoneità, oppure deve cambiare strada. La figura del ricercatore a vita viene sostituita da quella del ricercatore a tempo determinato, che non può trascinare questa situazione oltre un ragionevole periodo di prova. Le nuove regole prevedono anche la creazione di posti di professore straordinario, con incarichi rinnovabili fino a un massimo di sei anni, destinati a docenti di alto livello per la realizzazione di progetti di ricerca pensati in convenzione con enti esterni all’università e da questi finanziati. Le università potranno inoltre stipulare convenzioni con imprese, fondazioni o altri soggetti pubblici o privati, per condurre ricerche da affidare a professori già in ruolo; e potranno chiamare alla docenza studiosi stranieri o italiani impegnati all’estero, o conferire il posto di professore ordinario a studiosi di chiara fama. Accanto a questi provvedimenti chiaramente orientati a rendere dinamica l’università e a costruire carriere basate sul merito, la legge contiene anche provvedimenti di altro tipo, tesi, in sostanza, a sanare le situazioni esistenti. Per gli attuali ricercatori sono previste riserve di posti che consentiranno il loro passaggio, nel giro di alcuni anni, al ruolo di professore associato. Ricercatori, incaricati stabilizzati, assistenti, tecnici laureati che non passassero la valutazione di idoneità potranno continuare ad insegnare con il titolo di professore aggregato. Fino al 2013, inoltre, sarà possibile continuare a bandire concorsi per ricercatore a tempo indeterminato (quelli attuali, che le nuove norme vorrebbero sostituire con i contratti a termine), destinati, in sostanza, ad assorbire dottori di ricerca, assegnisti e contrattisti. In conclusione, la recente legge vorrebbe aprire una nuova fase per l’università italiana puntando all’alta qualità, ma tutti coloro che hanno già un piede nell’università riusciranno, in un modo o nell’altro, a restarci, molti di essi evitando una effettiva selezione. Un altro aspetto problematico riguarda il finanziamento dell’università. La legge appena approvata si preoccupa di ribadire che non ci dovranno essere oneri aggiuntivi per lo stato, che le varie innovazioni dovranno trovare una copertura di spesa ad opera delle sedi locali. Su questo punto si concentrano maggiormente le critiche dei rettori, che vorrebbero maggiori risorse per le università. D’altra parte, la legge è congegnata proprio per spingere le università a reperire maggiori risorse nel settore privato, seguendo l’esempio delle università statunitensi e inglesi: e questa è certamente una strada – non l’unica – per aumentare la qualità della ricerca. A questo punto, però, l’argomento che viene abitualmente avanzato è: attenzione, non si può essere schiavi del mercato, non si può permettere che sia esso a determinare le scelte formative dell’università. D’accordo, ci deve essere una visione culturale, un progetto di formazione delle persone e di bene comune che vadano al di là del mercato. Ma ciò non significa escludere il mercato, cioè impedire che i privati contribuiscano al finanziamento di specifiche linee di ricerca, soprattutto se questi introiti permettono all’università di finanziare anche progetti che non sono immediatamente appetibili da parte del mercato, ma hanno un alto valore culturale. Il problema dell’università italiana di oggi è esattamente l’opposto: i finanziamenti sono nella quasi totalità pubblici e indipendenti dalla loro utilità di mercato; ed è questa situazione che può trasformare qualche università in un carrozzone inutile. Il problema più scottante poi, a mio avviso, è che manca il progetto culturale, che l’università di oggi non riesce ad assolvere al compito di formazione culturale per il quale era nata; perciò la forza del mercato, in assenza di altre prospettive, acquista tanta forza. Ma questo sarebbe argomento per un dibattito più vasto e approfondito. Come giudicare questo insieme di norme che appare, per certi aspetti, contraddittorio? Il prof. Gui valuta positivamente i contratti a tempo determinato per i ricercatori all’inizio della carriera, purché la nuova situazione sia gestita in modo virtuoso, da un’università che punti all’alta qualità; in tal modo, infatti, si consente di mettere alla prova i giovani, di verificare se la ricerca e la docenza universitaria è veramente il loro mestiere: può essere un bene sia per loro, sia per l’università. In passato, al contrario, ho visto persone diventare ricercatori a vita, senza che esse veramente lo volessero e senza che chi le doveva valutare le avesse mai davvero valutate; e difficilmente qualcuno rinuncia ad un posto stabile che diventa una specie di sinecura. Ma aggiunge: Nel nostro contesto, però, c’è il rischio che non ci sia questa pressione per la qualità; allora, la precarietà dei ricercatori, il tenerli in sospeso, in una situazione in cui l’università vola basso, si può trasformare in una posizione di debolezza dei ricercatori nei confronti dei loro capi. Se così fosse, la situazione diventerebbe peggiore di quella attuale. In conclusione, la discriminante – che può decidere se con questa riforma si andrà verso il peggio o verso il meglio – è la volontà, da parte delle università, di perseguire la qualità più alta e di farlo avendo consapevolezza del valore e delle implicazioni sociali di tale scelta. Questa opzione, infatti, non riguarda soltanto l’università: in diverse forme, è davanti a tutto il sistema Italia, e il modo con il quale la affronteremo deciderà della qualità del nostro futuro. Certamente, dall’università – che dovrebbe essere, per definizione, il luogo nel quale si punta in alto – il paese avrebbe diritto di ricevere l’esempio migliore.

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