Almeno 30 manifestanti uccisi a Khartoum
Lunedì, le forze di sicurezza sudanesi hanno preso d’assalto un sit-in di protesta nella capitale sudanese, Khartoum. Secondo un comitato di medici vicino al movimento, almeno 35 persone sono state uccise quando l’esercito e la milizia delle Rapid Support Forces (Rsf) hanno cercato di rimuovere i manifestanti accampati davanti al quartier generale dell’esercito da quasi due mesi.
Gli eventi non hanno lasciato indifferente la comunità internazionale. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha condannato l’eccessivo uso della forza da parte delle autorità sudanesi e ha chiesto un’indagine indipendente. E gli stessi sostenitori del Consiglio militare, dall’Egitto agli Emirati Arabi Uniti, pur non condannando la violenza, hanno tuttavia chiesto la ripresa del “dialogo” tra militari e manifestanti.
Sono passati un paio di mesi da quando la folla è arrabbiata. Chiede ai militari di lasciare il potere ai civili dopo la partenza di Omar El Bashir. I militari e i paramilitari avevano già attaccato tre volte la scorsa settimana un’altra zona occupata dai manifestanti chiamata Colombia. In seguito hanno definito il sit-in un pericolo per il Sudan a causa di elementi incontrollati.
Coloro che hanno condotto quest’operazione di repressione sono noti per la loro brutalità. Si tratta principalmente delle Rapid Support Forces, la Rsf, una milizia paramilitare guidata dal gen. Hemetti, numero due della giunta militare, un gruppo di diverse migliaia di uomini noti per i gravi crimini commessi nel Darfur. Ma non tutti tra i militari la pensano come Hemetti: il tenente generale Abdel Fattah al-Burhan, ha detto sì che la coalizione è responsabile per il ritardo nel raggiungimento di un accordo finale, ma ha promesso un’indagine sugli eventi mortali.
Militari e civili hanno negoziato la condivisione del potere durante il periodo di transizione. Le due parti hanno discusso principalmente della divisione dei posti nel Sovrano Consiglio, l’organismo che deve gestire la transizione alle elezioni e diventare il cuore del potere. Le parti hanno tuttavia concordato un periodo transitorio di 3 anni e l’istituzione di un organo legislativo composto per il 67% da civili. Il vero ostacolo è la composizione del Sovrano Consiglio: mentre i manifestanti vogliono una transizione più o meno civile, l’esercito intende avere un controllo totale su questo organo.
«Con quello che è successo, la situazione è cambiata completamente in Sudan. Ora, l’unico modo per prevenire il collasso del Paese è consegnare il potere a un governo civile, senza ulteriori ritardi», ha detto Yasser Arman, uno dei leader delle forze di libertà e cambiamento, la coalizione che conduce le proteste nel Paese. Inoltre, l’Associazione dei professionisti sudanesi annuncia che rompe tutti i negoziati con i militari.