All’ombra del genio

Com’è difficile essere moglie di un celebre romanziere! Dalla parte di Emma e di Sof’ja
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Il grande scrittore vittoriano Thomas Hardy, famoso per romanzi come Via dalla pazza folla, Tess dei D’Uberville, Jude l’oscuro, lo è molto meno, in Italia, per la sua opera poetica. A questo, che era stato il suo primo amore, egli tornò a dedicarsi dopo le polemiche succedute alla pubblicazione del citato Jude, romanzo-scandalo che segnò la fine della sua opera narrativa; e i risultati furono tali da meritare d’essere considerato uno dei massimi poeti inglesi del Novecento. Felice, dunque, l’iniziativa dell’editore Marsilio di pubblicare Poesie per Emma, una scelta fra il centinaio di componimenti poetici dedicati da Hardy ormai vecchio alla prima moglie Emma Lavinia Gifford.

 

Il volume è interessante non solo per il livello artistico di queste composizioni, che peraltro può apprezzare pienamente, anche nelle sue forme metriche estremamente varie, solo chi conosce l’inglese (accanto alla traduzione c’è il testo originale), ma perché dà modo di addentrarsi nei meandri della psiche di uno scrittore che, se seppe descrivere con straordinaria acutezza psicologica certe figure femminili dei suoi romanzi, fallì clamorosamente – dopo l’iniziale invaghimento – nel rapporto con la propria moglie, con la quale visse oltre trent’anni.

 

Poiché si può dire che iniziò ad amarla solo dopo la sua morte, Hardy si può ben definire “poeta dell’assenza” o “dell’espiazione”, la cui tragedia sta nell’aver trascurato e fatto soffrire la sua compagna finché l’aveva accanto, e solo sa rimpiangerla ed accusarsi dopo averla perduta. Tragedia anche perché Hardy – al contrario della consorte, il cui spirito d’indipendenza l’aveva resa incapace di starsene tranquilla all’ombra del “genio”– non credeva in Dio e quindi in una comunione oltre la vita terrena. E dire che era stata proprio lei ad incoraggiarlo ad intraprendere la carriera letteraria!

 

Nei brani antologizzati lo scrittore non rievoca certo Emma come s’era ridotta quando, ormai esasperata e inacidita, era anche mentalmente instabile, bensì nel suo fulgore giovanile di amazzone provetta. Quasi novello Orfeo in cerca della sua Euridice, egli ne insegue il fantasma nei luoghi frequentati insieme, ne ricorda episodi, immagina gli aspri rimproveri che lei gli rivolge, tra scenari di grande bellezza (la selvaggia Cornovaglia) e immagini più lugubri da letteratura gotica (non a caso Hardy s’era specializzato come architetto in “falsi” in stile gotico, tipici dell’epoca vittoriana). Eppure sono poesie d’amore sincere, queste dedicate a Emma, testimonianza palpitante dell’anima umana con le sue grandezze, le sue miserie, le sue contraddizioni.

 

Fatto piuttosto sorprendente: Hardy le compose quando, già risposato con Florence Emily Dugdale, fece di esse l’unico suo tardo interesse, senza accorgersi con ciò di riproporre alla seconda moglie un destino analogo a quello della infelice Emma. Evidentemente non aveva imparato granché dall’esperienza precedente! Gustate l’afflato lirico di queste poesie, ma simpatizzate – come è toccato a me – prima con Emma e poi con Florence.

 

Ancora più tragica, direi, è la vicenda di Sof’ja Tolstaja, moglie del sommo Lev Nikolaevic Tolstoj, che un recente splendido film – The Last Station – ha portato sugli schermi. È Euridice stavolta a inseguire il suo inquieto Orfeo ottantaduenne, fuggito dai propri congiunti perché stanco di contrasti, gelosie e rivalità familiari nella tenuta paterna di Jasnaja Poljana, dove gli era diventato ormai impossibile realizzare gli ideali di povertà e giustizia sociale attinti dal vangelo.

Lo raggiunse morente nella stazioncina di Astapovo, dove era stato colto da malore, e per sei giorni non riuscì a vederlo, impedita dai figli e dai medici.

 

Di questa donna che ebbe un ruolo arduo – essere compagna di un genio dagli slanci universali, con un vasto seguito di discepoli affascinati da questo profeta della non violenza, ma quasi inetto a occuparsi dell’educazione dei numerosi figli e della conduzione di una famiglia – l’editrice La Tartaruga ha pubblicato dopo Amore colpevole, un romanzo in parte autobiografico, la cui eroina è – manco a dirlo – una sposa infelice, I diari 1862-1910, iniziati quando Sof’ja sposò giovanissima Tolstoj e proseguiti fino all’anno della morte dello scrittore.

 

Tra momenti di felicità inenarrabile ed altri di incomprensione totale, si snoda una sorta di “guerra e pace” familiare, testimonianza viva della fatica di convivere con un genio: si fosse “annullata” davanti al marito, Sof’ja, come la moglie di Dostoevskij Anna Grigor’evna, forse le cose sarebbero andate diversamente.

 

Altri testi, in quest’anno centenario tostojano, aggiungono nuovi tasselli per rivivere quella che, grazie ai mezzi di comunicazione dispiegati, è stata definita la prima “morte in diretta “ della storia: Tolstoj è morto di Vladimir Pozner (Adelphi), mirabile “montaggio” di resoconti di giornali e dispacci telegrafici, assieme a brani di diario di Lev e Sof’ja; cui va aggiunta la riproposta de La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari (Skira), rigorosa, epica e poetica ricostruzione degli ultimi giorni del grande scrittore.

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