Alleanza o guerra dei sessi?

Astensione dal lavoro per una o due ore, bombardamento di foto e hashtag, cortei e manifestazioni per il primo sciopero internazionale delle donne, con l’America Latina in un ruolo da protagonista. Per chiedere una vera parità sul lavoro, anche in termini di salari, e dire basta alla violenza femminicida
Haley Nelson/Post-Gazette

Finalmente, nel 2044, in Uruguay le donne guadagneranno come gli uomini. Di questo passo, il gap salariale si estinguerà tra “soli” 27 anni. Ma la richiesta di uno stipendio equo è solo il secondo motivo del grande sciopero internazionale delle donne proclamato l’8 marzo e intitolato: “Se ci fermiamo noi donne, fermiamo il mondo”. Secondo i dati del Parlamento europeo, per ogni 100 euro guadagnati da un uomo, una donna nella stessa posizione ne guadagna 60. Ma in America Latina è la violenza in tutte le sue forme, con l’allarme della crescita dei femminicidi, la prima causa di questo sonoro “basta” delle donne. Sono partite dall’Islanda e dalla Polonia le scintille di questo #8M che in Sudamerica non ha precedenti in quanto a impatto numerico e mediatico.

A fine 2016, nell’isola nordica (Paese del primo storico sciopero femminista nazionale, nel 1975) uno sciopero di massa delle donne, che chiedevano uguale remunerazione e condizioni lavorative degli uomini, ha portato alla creazione del ministero per l’Uguaglianza dei diritti. Ispirate dal precedente islandese degli anni Settanta, in ottobre associazioni femministe polacche avevano scioperato a tappeto ottenendo il voto negativo del Parlamento alla legge che avrebbe penalizzato l’aborto e stabilito indagini per i casi di aborto spontaneo.

Le proteste delle polacche riecheggiarono in diverse città europee e in tutto il mondo, incoraggiando le organizzazioni femministe argentine a muoversi, con uno sciopero di un’ora e cortei contro l’aumento dei femminicidi (sette nel fine settimana precedente) e la repressione da parte della polizia di un corteo nazionale. Grazie alle diramazioni nazionali del collettivo antiviolenza di genere “Ni una menos” (Neppure una di meno), le proteste si sono moltiplicate nella maggioranza dei Paesi latinoamericani e, dopo una seconda ondata di manifestazioni nel loro Paese, le attiviste polacche avevano contattato le argentine per fare massa critica e coordinare azioni di maggiore impatto.

Femminicidio
Femminicidio

Corea del Sud e Russia sono state le prime ad aggiungersi al gruppo interistituzionale di Facebook al quale poi aderirono anche l’Irlanda, Israele e Italia. E così, col titolo di “Sciopero internazionale delle donne”, il movimento è cresciuto e il 25 novembre scorso – Giornata internazionale contro la violenza di genere – ha indetto uno sciopero internazionale per questo 8 marzo, al quale hanno aderito complessivamente 54 Paesi dei 5 continenti.

Questa volta, le attiviste hanno fatto rete sul serio. «Se le nostre vite non valgono nulla, allora scioperiamo» e «se il nostro lavoro non vale nulla, producete senza di noi» sono stati i principali slogan di questa giornata di protesta in America latina, che si è espressa mediante l’astensione dal lavoro per una o due ore (lasciando un cartello di adesione al proprio posto) con cortei, letture di proclami e l’appoggio di numerose artiste e personalità che hanno calcato i palchi dei raduni, con attività culturali e adesioni simboliche, quali un nastro o una bandierina viola (il colore del femminismo), l’affissione di cartelli, le foto di gruppo o individuali e i video sui social media con l’hashtag #YoParo (“io sciopero”, ma anche “io mi fermo”). L’invito allo sciopero (in questo caso, per l’intera giornata) è stato rivolto anche a casalinghe e badanti, per evidenziare che si tratta di “ruoli basati sul genere”. Certo, l’adesione è variata parecchio da Paese a Paese, ed è stata logicamente maggiore dove i sindacati sono forti e hanno aderito.

Ma il movimento, virtuale e nelle piazze, è stato notevole. Varie migliaia di donne hanno occupato le piazze nelle capitali e nelle principali città, con numeri record in alcuni luoghi. E con una buona presenza di uomini (mariti, padri, fidanzati…). Nei casi più estremi è stato promosso il boicottaggio di aziende che utilizzano categorie sessiste nelle pubblicità o nel modo di trattare le loro impiegate, si è invitato allo “sciopero del sesso” e persino a compiere atti pubblici di apostasia contro la Chiesa cattolica. Proprio così: preti e vescovi sono stati messi sotto la gogna perché non farebbero abbastanza per combattere le violenze frutto del “machismo” e per promuovere l’uguaglianza, oltre che per aver commesso abusi o aver protetto dei violentatori.

Ma c’è stata anche una certa guerra ideologica di fondo. In Paraguay, agli hashtag #YoParo hanno risposto quelli #YoNoParo, e il rumore che hanno fatto sui social ha dato ai (alle) dissidenti l’attenzione della stampa, delle radio e della tv. L’accusa di questi ultimi: lo sciopero nasconde, come un cavallo di Troia, il tentativo di dimostrare che grandi masse di donne appoggiano l’ideologia gender, con l’aborto (illegale nel paese e con una forte opposizione popolare, anche se in calo) in prima fila. Adirate le risposte delle femministe, che parlano di tradimento del proprio sesso e sottomissione alla Chiesa. In effetti, anche se assente da cartelli e slogan, l’aborto (e in particolare il suo “diritto” per le minori che «sono obbligate a partorire») e gli altri elementi classici dell’ideologia di genere sono stati presenti nel manifesto letto nel corso della manifestazione centrale. A Buenos Aires, in Argentina, si sono registrati (non è la prima volta) lanci di oggetti contro la cattedrale, simbolo di un’istituzione ritenuta ostile dalle pro-abortiste.

femminicidio
femminicidio

Qua e là si è percepita la volontà di escludere gli uomini dalle rivendicazioni, poiché sarebbero “nemici”. Lo si è visto in particolare in Argentina in febbraio durante la protesta contro il fermo di alcune donne in topless nella spiaggia di Necochea. Certo, la presenza sul luogo di numerosi maschi “guardoni” è apparsa evidente, e ciò la diceva lunga sul fatto che c’è ancora parecchio da fare anche in una società considerata tra le più avanzate del continente. È anche vero che la rabbia di cui sono stati oggetto anche i maschi che desideravano sinceramente solidarizzare con le donne è stata frutto in parte della confusione. Resta il fatto che un uomo per partecipare doveva farsi prestare un reggiseno e indossarlo…

Ma non per tutte le donne è così. Per tante, anche in Argentina, gli uomini possono essere degli alleati. A questo riguardo, in Uruguay, sempre in febbraio, un gruppo di 11 uomini di spicco di tutti i partiti politici si è ritrovato prima in un bar e poi in una sala della Biblioteca nazionale costituendosi come “Maschi per l’uguaglianza”, e contro la violenza di genere, con lo slogan: “Ce ne prendiamo la responsabilità”. «Quando è stata uccisa quest’anno la quinta donna per femminicidio, ci siamo guardati l’un l’altro, tutti e 11, come dicendoci: “Siamo quasi complici. Anche se non siamo stati noi personalmente, sono uomini quelli che stanno uccidendo le nostre donne. Dobbiamo fare qualcosa»: così ha spiegato l’iniziativa l’attore e politico Iván Solarich.

È dello stesso avviso la coordinatrice di Onu-donne in Paraguay, Carmen Echauri: «Il cambio non può venire solo dalle donne. Certo, negli ultimi anni la coscienza femminile è cresciuta molto, ma il maschilismo, che considera la donna come proprietà dell’uomo, è ancora forte, e il crescente protagonismo della donna nel mondo del lavoro e nella società ha creato un certo sconcerto in certi uomini, che avvertono che stanno perdendo il controllo e sulle loro mogli o compagne, che ora non dipendono da loro economicamente».

Buoni risultati sta cominciando a raccogliere il programma Onu “LuiPerLei” (HeForShe), reso noto dal memorabile discorso dell’attrice Emma Watson, sua testimonial, al Palazzo di vetro. «Nel Paese sono stati coinvolti centinaia di ragazzi e varie aziende. Soprattutto constatiamo come i giovanissimi prendano coscienza di ciò che può fare uno di loro per sradicare il maschilismo e la violenza, partendo dal rispetto alle proprie compagne. La strada è ancora lunga, ma questo ci dà un po’ di speranza».

Echauri sa che le aggressioni verbali per la strada sono culturalmente «naturali e normalizzate», e che non è facile avvicinarsi alla parità perché per gli uomini «si tratta di rinunciare a privilegi». Tuttavia, ritiene che questo sciopero «segni un passo fondamentale» e che, anche se non ci si può permettere soste nell’impegno, siamo sulla strada giusta.

Manifesto contro il femminicidio foto Ansa
Manifesto contro il femminicidio foto Ansa

Le richieste

  • Assegnazione di budget per la lotta contro la violenza basata di genere, per la prevenzione, l’accesso universale alla giustizia e a cure sanitarie e psicologiche alle vittime;
  • Legge integrale contro la violenza di genere (dove manca);
  • Addestramento specializzato a poliziotti e magistrati per una accoglienza adeguata, professionale e non penalizzante delle donne che denunciano casi di violenza;
  • Politiche per ridurre il gap salariale;
  • Partecipazione paritaria di donne e uomini in tutti gli ambiti decisionali;
  • Servizi sanitari per l’aborto sicuro su tutto il territorio (dove è legale).

I numeri

  • In Argentina ogni 29 ore muore una donna per cause legate alla violenza di genere (femmicidio, soggetto a pene superiori all’omicidio comune); 50 aggressioni sessuali ogni giorno; stupri: 8,7 per 100 mila abitanti; una donna su due lavora o cerca lavoro (uomini: 72% lo hanno).
  • In Paraguay: 7 femminicidi nei primi due mesi del 2017; 572 casi di gravidanza in bambine tra i 10 e i 14 anni, corrispondenti al 3% delle gravidanze di minorenni.
  • In Uruguay: 6 femminicidi (più altri due sotto indagini) in gennaio e febbraio 2017. Il Paese – primo nelle Americhe a legalizzare il divorzio (1907) – occupa il 93° posto nella graduatoria di partecipazione parlamentare femminile; solo il 3% dei manager delle grandi aziende con sede nel Paese sono donne.
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