Alle sorgenti del Sarno

Ricchezze storiche e umane della cittadina campana, ferita dalla frana del 1998  

«Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro./Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto./Ma nel cuore/nessuna croce manca./È il mio cuore/il paese più straziato». I celebri versi di Ungaretti campeggiano in una lapide sulla facciata ottocentesca del palazzo municipale di Sarno, la cittadina campana che assieme alle aree urbane di Quindici, Siano e Bracigliano fu devastata, tra il 4 e il 6 maggio 1998, da un’alluvione che causò la morte di 160 persone: di queste, 137 nella sola Sarno, la cui frazione di Episcopio fu l’area maggiormente colpita il 5 maggio, allorché circa due milioni di metri cubi di fango si staccarono dalle pendici del monte Pizzo d’Alvano e travolsero gli abitati sottostanti, compreso l’ospedale di Villa Malta, investito in pieno dalla frana.

Ed oggi? Sarno è tornata ad essere la tranquilla cittadina d’un tempo, anche se l’eco delle polemiche non si è ancora spento (il disastro, si disse, fu favorito dall’incuria e dall’abbandono in cui sono tenuti i canali di scolo borbonici – i “regni lagni” – che scorrono dalle falde del monte fin dentro il paese, e aggravato dalla gestione “passiva” degli eventi da parte dell’amministrazione locale di allora). La mia visita al bel centro storico risparmiato dall’evento devastatore inizia dal suo cuore, questa piazza IV novembre dove sorge il monumento a Mariano Abignente, prode cavaliere in cimiero e corazza, uno dei tredici partecipanti nel 1503 alla celebre disfida di Barletta, lui che era nativo proprio di qui (ancora oggi i discendenti conservano il suo pugnale e il suo stocco, esposti al pubblico solo in poche occasioni).

Dopo aver ammirato gli scorci suggestivi delle tortuose stradine e alcuni pregevoli esempi di chiese e palazzi antichi, raggiungo la meta che mi ero proposto: il Museo archeologico nazionale della Valle del Sarno, ricco di reperti che abbracciano un lasso di tempo vastissimo, dalla preistoria (IV millennio a. C.) all’età medievale  (sec. V d.C.). Ha sede in un maestoso palazzo settecentesco il cui alto portale in pietra introduce in una corte dominata da una scenografica scala aperta con triplice loggia di arcate. Il moderno allestimento delle sale valorizza in pieno le opere esposte; tra quelle provenienti da necropoli ellenistiche, ammiro in particolare tre sepolture a cassa appartenute a personaggi d’alto rango, a giudicare dalla ricchezza dei corredi funerari. Sui lastroni di pietra dipinti sono rappresentate scene figurate col ricorrente motivo del “ritorno del guerriero”, accolto dalla famiglia con le donne fastosamente abbigliate.

 A farmi da guida è Pasquale Atripaldi, che scopro essere stato stretto collaboratore della dottoressa De’ Spagnolis, già archeologa della Soprintendenza di Salerno, Avellino e Benevento, che ha operato molto per questo museo, lasciando di sé un ottimo ricordo. Forse per questa comune amicizia, vengo invitato a visitare eccezionalmente alcune bellissime sale affrescate del palazzo, ancora chiuse al pubblico perché in attesa di restauro. Col rammarico che un museo del genere sia ancora poco conosciuto, mi dirigo ora a piedi – prevedo una marcia di qualche chilometro – alla zona archeologica fuori città, dove è stato rinvenuto un teatro ellenistico in miniatura. Provvidenziale il passaggio in macchina offertomi da una signora alla quale ho chiesto informazioni sul percorso: è diretta proprio da quelle parti.

Durante il tragitto ho modo di avvistare diverse tracce di ciò che accadde in quel tragico maggio del ’98. Sul fianco scorticato del Pizzo d’Alvano si legge ancora chiaramente il percorso della frana, come la zampata di una belva che abbia strappato la corteccia di un albero. Molte, è vero, le case ricostruite o in ricostruzione, ma ancora numerosi sono i “brandelli di muro”, per dirla con Ungaretti. Intanto la gentile accompagnatrice mi ragguaglia sulle cose notevoli Sarno, tra cui due ex filande edificate tra Ottocento e Novecento, ora restaurate e adibite ad altri usi. E soprattutto Terravecchia, ossia il primitivo nucleo della città, sorto alle pendici del monte Saro, in prossimità dei ruderi del castello fondato nell’VIII secolo dal duca longobardo di Benevento: un luogo caratteristico per la sua architettura povero-rurale “di costa”, a cubi sovrapposti. Lì in alto sorge pure la collegiata di San Matteo, risalente al X secolo e rimaneggiata in stile neo-gotico verso la fine dell’Ottocento.

Arrivati nei pressi dell’area archeologica (non aperta al pubblico, ma visibile attraverso una recinzione), ringrazio la signora e raggiungo un posto dal quale posso scorgere il piccolo grazioso teatro in tufo grigio di Nocera del II secolo a. C. Nella parte bassa della cavea i sedili d’onore presentano alte spalliere a sbalzo. Peccato non poter vedere da vicino le decorazioni dei braccioli a forma di sfinge o di zampa leonina alata. È uno dei pochi esempi del genere in Italia, che lo accomuna all’Odeon di Pompei.

Già che mi trovo, ne approfitto per visitare il vicino santuario di Santa Maria della Foce, caratterizzato da un alto campanile che ricorda quello di San Marco a Venezia, il tutto immerso nel verde di un parco fluviale: infatti, proprio in prossimità della chiesa, il fiume Sarno –  la cui fama ahimè è di essere il fiume più inquinato d’Europa – ha qui una delle sue sorgenti, qui dove scorre con acque ancora limpide e innocenti all’ombra di salici e pioppi. Dopo una sosta tra la pace di quest’oasi naturale e la frescura accogliente della chiesa assolutamente deserta (vi è sepolto Gualtiero III di Brienne, paladino di Innocenzo III per riportare il controllo sul regno di Sicilia), mi accingo alla marcia di ritorno verso il centro abitato.
A metà strada si accosta a me, ormai grondante sudore, un’altra soccorritrice in auto: è un’altra signora («non si può andare a piedi sotto questo sole), che superando l’incognita di dare un passaggio ad uno sconosciuto, mi scarrozza fino al centro di Sarno, questa città ferita e risorta, che tre incontri cordiali con gente del posto mi rendono tanto più  grata al ricordo.
 
 

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