Alle origini dello Slow Food

A colloquio con Giulio Colomba, uno dei fondatori del movimento insieme a Carlo Petrini
verdure

«Nel 1986, quando è stata fondata ArciGola, io c'ero»: esordisce così Giulio Colomba, già vicepresidente nazionale di Slow Food e tra i firmatari del manifesto che nel 1989 a Parigi ha dato inizio al movimento. Lui non è di Bra – come il fondatore Petrini – bensì friulano; eppure la sua regione ha sempre dato un contributo notevole allo sviluppo di un'associazione che oggi conta quasi 100 mila soci in 150 Paesi. Il 10 dicembre dell'89 con lui a Parigi c'era infatti un altro corregionale, Emilio Savonitto; e nel corso degli anni quello friulano «è sempre stato il secondo o terzo gruppo a livello nazionale».

Certo all'epoca la sensibilità su temi come la sostenibilità della produzione agricola, la conservazione della biodiversità e il cibo a km zero era molto diversa: «Ma abbiamo avuto la lungimiranza di individuare principi che ormai sono accettati nel senso comune. Oggi esprimiamo un'egemonia culturale nel campo alimentare, sostenendo il diritto ad un cibo che sia buono, pulito e giusto: ossia gustoso, rispettoso della nostra salute, dell'ambiente e di chi lo produce. Che deve essere pagato il giusto».

Tema scottante in un contesto di crisi, soprattutto dopo l'allarme lanciato da Coldiretti su come questa stia costringendo gli italiani a dirigersi su cibi di bassa qualità: «Ma anche la nostra filosofia può dare una risposta in questo senso – osserva Colomba – con il consumo locale, che consente di contenere i costi. Ma dare il giusto valore al cibo significa anche reindirizzare i consumi: basta ad esempio scegliere un cellulare meno costoso o cambiarlo meno spesso, per potersi permettere cibo più genuino».

Un limite che Colomba riconosce a Slow Food è la diffidenza nei confronti dell'innovazione: «Difendiamo la tradizione, ma questa non va intesa come conservatorismo – puntualizza – e non credo la scienza vada demonizzata». La posizione di Colomba si discosta dunque leggermente da quella ufficiale dell'associazione, che esclude in toto gli ogm: «Anche la normativa distingue tra diverse tipologie di intervento a livello genetico – osserva –, innanzitutto tra quelle all'interno della stessa specie e quelle tra specie diverse. Prendiamo il caso dell'Istituto di genomica applicata di Udine, che sta studiando degli incroci in forma tradizionale per ottenere viti resistenti alle infezioni. Al momento si è riusciti ad ottenere solo una pianta che di fatto non è più vitigno friulano, e gli agricoltori la stanno preferendo a quest'ultimo: ma se si arrivasse un giorno allo stesso risultato mantenendo la specie, così che questa non venga abbandonata, non vedo perché questo debba essere necessariamente un male».

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