Allargare gli orizzonti
Continuando la riflessione aperta con la domanda su che cosa voglia dire fare filosofia, vorrei donare alcuni pensieri su un problema di enorme importanza per l’uomo, riprendendo e precisando quanto detto nel precedente scritto. La domanda è questa: la conoscenza è solo qualcosa di individuale o è anche allo stesso tempo qualcosa di intersoggettivo, di collettivo? In altre parole, che influenza ha nella mia conoscenza l’inter-soggettività, il collettivo, il mio rapporto con gli altri uomini? Quando noi diciamo l’uomo è naturalmente sociale, quali conseguenze ha questa verità per la conoscenza umana? Uomo e socialità Una prima constatazione è che non si può mai parlare di conoscenza individuale in senso assoluto: se qualcuno dovesse conoscere il mondo da solo non arriverebbe ad avere una cultura, ma resterebbe una muta apertura alla conoscenza. Di fatto io non esisto mai da solo; se non altro perché sono stato generato da genitori, dai quali ho ricevuto un contributo fondamentale, sia genetico sia per quel tanto che sono stato in contatto con loro (si sa quanto la psicanalisi abbia contribuito a rilevare l’importanza di questo fatto). D’altronde, per capire quanto la nostra conoscenza dipende dal contesto sociale in cui viviamo, basti pensare in che misura l’ambiente in cui si è cresciuti forma la mia conoscenza, il mio approccio al reale. Comunque questo sarebbe ancora troppo poco: nessuno nega l’importanza del contributo degli altri nella propria conoscenza. La domanda di fondo, invece, è la seguente: questo contributo degli altri, si aggiunge come qualcosa di estrinseco alla nostra conoscenza, oppure è intrinseco all’atto di conoscere? La parola Quello che vorrei affermare è che la presenza degli altri è qualco- sa di intrinseco all’atto stesso del conoscere, una componente necessaria della conoscenza. L’essenza dell’atto del conoscere come conoscenza razionale implica di natura sua l’altro. Un fenomeno tipicamente umano che ci aiuta a capire ciò, è la parola. Quand’è che io veramente conosco? Quando passo da una percezione oscura ad un’altra chiara, cioè quando riesco a dare un’espressione verbale alla mia percezione, quando esprimo con chiarezza una parola. Ora, ogni parola nella quale io esprimo la mia conoscenza è espressione della mia persona, delle mie esperienze, della mia conoscenza, ma nello stesso tempo l’ho anche ricevuta dagli altri, perché ripeto quello che ho imparato a formulare da loro e con loro. Io esprimo le mie conoscenze con quel linguaggio che ho ricevuto nei rapporti con gli altri persino quando creo delle parole e delle espressioni nuove, perché anche queste devo concepirle con gli elementi, i presupposti, le regole di gioco linguistiche imparate assieme agli altri uomini. Se creassi qualcosa di completamente nuovo e diverso, renderei incomprensibile agli altri – e a me stesso – ciò che voglio dire. Questo significa che ogni parola e quindi ogni conoscenza implicano il dialogo con gli altri. Se è solo l’uomo a possedere la parola, è proprio per la sua socialità, cioè per il suo essere comunicante: ogni parola implica una persona che parla e una persona con la quale si parla, implica l’altro. In qualunque istante io ponga un atto di conoscenza, io parlo ad un altro. Anche quando credo di parlare con me stesso, in realtà è con gli altri che parlo primariamente: se parlassi solo a me, di fatto non parlerei, tacerei limitandomi a percepire confusamente l’essere. La conoscenza nasce sempre nel colloquio. Ogni conoscenza è un parlare con gli altri rivolgendomi a me stesso. O più precisamente, è un colloquio con me stesso nel quale sono presenti intrinsecamente e profondamente gli altri. Saranno presenti forse in maniera confusa, imperfetta, ma ci sono. Io non conosco mai solipsisticamente anche quando conosco da solo. Che cosa succede allora quando io dono agli altri la mia conoscenza? Le parole che formulo per esprimere e per trasmettere quell’essere che ho percepito, non sono solo mie ma provengono simultaneamente da me e dagli altri: ciò significa che quando porgo quello che ho conosciuto, coloro che mi ascoltano sono già da prima inseriti nelle espressioni che vengono formulate. Nel dire agli altri quelle mie parole- conoscenza, essi sono inseriti completamente, anche se inconsapevolmente, in quello che sto dicendo, proprio perché hanno contribuito al mio conoscere, me l’hanno dato e costruito, almeno in una certa misura. Quelle conoscenze sono già frutto di una comunione con loro. La verità In realtà non è per niente strano che la mia conoscenza sia sempre conoscenza-con-gli-altri, colloquio esplicito o silenzioso. È qualcosa che corrisponde al nostro stesso essere: io sono-inesistenza con gli altri prima ancora che questo essere-in-esistenza con gli altri si attui come conoscenza personale o intersoggettiva. Se il mio conoscere è intrinsecamente legato all’esistenza altrui, è perché noi prima ancora di conoscere e di costruire coscientemente una conoscenza intersoggettiva, siamo conoscenza intersoggettiva, siamo un’esistenza intersoggettiva nell’essere stesso nostro. La relazione agli altri è intrinseca alla condizione umana. Questo è il motivo profondo per cui io non devo mai dare all’altro una verità pretendendo di imporla. Sarebbe ignorare la parte che l’altro ha avuto nella formazione e nell’elaborazione della mia conoscenza; e, quel che è peggio, gli impedirei di inserirsi più pienamente nella verità che ho scoperto e sto dando. Io posso solo porgere, donare la mia verità, per lasciarmi completare dalla verità dell’altro. Io offro una fiammella che porta un po’ di luce nel mistero. Nel porgere la verità, devo infatti mantenermi nell’apertura al mistero. Ed è solo donando quella mia verità che io consento agli altri di entrare nel mistero, di completare con la loro esistenza, con la loro presenza, con la loro parola, la verità che ho scoperto, allargandola ed aprendola in un orizzonte grandioso.