Alla scoperta di Minturno
Sono 24 i siti italiani descritti dall’archeologo subacqueo Michele Stefanile nel suo Andare per le città sepolte, edito da il Mulino: un suggestivo itinerario tra storia e cultura per rintracciare lungo la nostra Penisola 24 città «un tempo ricche e popolose, uscite poi di scena in modo traumatico o spentesi lentamente, sopraffatte dalla natura o spianate dalle armi, incorse in un declino inesorabile». Da Pompei a Tharros, da Aquileia a Solunto… Sono rimasto soddisfatto nel costatare che di questo elenco per regioni sono riuscito a visitare almeno undici città “perdute”. E tra queste Minturno.
Quasi al confine tra Lazio e Campania, verde di pini marittimi ed eucalipti, visitata dalla brezza del Tirreno, lambita dal Garigliano (il Liri delle fonti storiche, sulla cui sponda destra sorge), sfiorata dal moderno tracciato della via Appia: così mi è apparsa Minturno, la colonia romana erede di due popoli di stirpe italica: gli ausoni e gli aurunci. Dopo la conquista di Roma (fine del III secolo a.C.) la città conobbe un rapido sviluppo, diventando – grazie alla sua posizione strategica in prossimità del mare e di un corso d’acqua all’epoca navigabile – un importante punto di convergenza di rotte mediterranee e snodo di traffici tra l’Urbe e il Sud Italia, tale da rivaleggiare perfino con gli empori di Pozzuoli ed Ostia. Suoi prodotti principali: olio, vino di poco inferiore ai famosi Cecubo e Falerno, legname, specie pregiate di pesce di mare e di fiume, strumenti agricoli e pece (quest’ultima largamente impiegata per sigillare i tappi delle anfore, per usi medici e per l’impermeabilizzazione dei natanti).
Fu famosa anche per l’antichissimo santuario extraurbano dedicato al culto di Marica, divinità italica della navigazione, dell’acqua e delle partorienti, che sorgeva presso la foce del Liri, in una zona paludosa con accanto un bosco sacro (ora soppiantato dalla pineta di Baia Domizia): quello stesso nel quale Caio Mario, dichiarato nell’88 a. C. nemico pubblico dal rivale Silla, fu raggiunto dal sicario incaricato di ucciderlo, riuscendo tuttavia a sfuggire alla morte e a imbarcarsi per l’Africa grazie all’aiuto dei minturnesi.
A differenza della nuova Minturno, riedificata sulle propaggini meridionali dei Monti Aurunci dopo le invasioni longobarde e saracene, le vestigia dell’antica, solo parzialmente scavata, sorgono in pianura sopra un modesto rilievo che all’epoca doveva apparire più elevato per la mole dei suoi edifici: i templi di età repubblicana e imperiale affacciati sul foro (tra questi, ancora intatto è il pozzo sacro dove venivano gettati gli oggetti colpiti da un fulmine), il teatro capace di circa 4600 spettatori, l’anfiteatro, le terme, le fontane, il mercato, le ricche domus… Ma Minturno non era racchiusa soltanto nel regolare impianto a scacchiera tipico delle città romane: nel suo territorio lungo il fiume e nella zona collinare, dove era intensivo lo sfruttamento agricolo, contava anche numerose ville rustiche; altre, marittime e certo più sontuose, dedite per lo più agli allevamenti ittici, erano disseminate lungo la fascia costiera (presso l’odierna Scauri).
Me l’immagino all’epoca del suo massimo splendore, iI II secolo d.C.: attraversata dall’Appia quale suo asse principale reso monumentale da portici fitti di botteghe che ricordavano le arterie colonnate di certe metropoli del Nord Africa. Oggi il tempo ha tutto spianato: uniche più vistose emergenze sono le mura in opera poligonale, il teatro che ospita in estate spettacoli classici (vi ho assistito alla Medea di Seneca), il mercato e l’ininterrotta fuga di 120 arcate dell’acquedotto che dalle sorgenti di Capodacqua (ai piedi della montagna di Spigno Saturnia), dopo 11 chilometri, si immetteva nella città.
Da non trascurare il piccolo Antiquarium allestito negli ambulacri del teatro: vi si trova esposta solo parte delle sculture e dei materiali lapidei rinvenuti negli scavi del secolo scorso; il resto è andato disperso o confluito in altre collezioni, in Italia e anche all’estero.
La figura più illustre legata a Minturno è Plotino, il fondatore del neoplatonismo che molti studiosi considerano pari a Socrate, Platone e Aristotele. Uomo amabilissimo, di grande fascino per sapienza e dirittura morale, un vero contemplativo, fondò a Roma una scuola frequentata anche da donne. Venerato dai discepoli e onorato dallo stesso imperatore Gallieno e da sua moglie Salonina, si propose – col loro appoggio – di fondare in Campania una città, Platonopoli, che sarebbe stata retta dalle leggi di Platone: progetto però andato a monte per gli intrighi e gli ostacoli frapposti da certi cortigiani. Secondo una notizia di Eustochio, durante i mesi estivi il filosofo egiziano era ospite abituale nella tenuta rustica dell’allievo e amico Zethos, a nove chilometri da Minturno. Qui scrisse alcuni trattati confluiti poi nelle Enneadi, uno dei testi fondamentali del pensiero occidentale, e qui morì nel 270 d.C., a 66 anni. Sempre al dire di Eustochio, che assistette al suo trapasso, come ultime parole affermò che «cercava di far risalire il divino che è in noi al divino ch’è nell’universo». I resti della villa che accolse Plotino? Vanno forse rintracciati sotto la chiesa di Santa Maria in Pensulis, nell’area comunale di Castelforte, presso quelle Terme di Suio rinomate fin dall’antichità col nome di Terme Vescine.