Alla scoperta di un pianeta
Uno spazio perché ogni persona ritrovi sé stessa come relazione con l’altro, ogni realtà sociale si senta invitata ad un confronto sereno e aperto. Da sedici anni è così, a Milano dove è nato il Festival del Cinema africano in un clima di festa e di partecipazione di anno in anno più folta e prestigiosa. La tradizione orale del Continente africano, ricca di spessore millenario, si condensa ormai in documentari, corti ma anche in lungometraggi dove l’anima di popoli e di civiltà a noi europei non sempre sufficientemente note si esprimono in produzioni filmiche di livello sempre più alto. Con tocchi dove poesia, favola e parabola arrivano ad un linguaggio universale. Penso ad esempio ad un corto di forte pregnanza etico e sociale Tes cheveux noirs, Ishan (I tuoi capelli neri, Ishan) della regista marocchina Tala Hadid: un uomo lascia l’Europa, ritorna in Africa del Nord dove tutto è rimasto come un tempo e rivive l’angoscia mai sopita della separazione dalla madre da ragazzo: quattordici minuti di poesia umana e di psicologia talmente ricchi da far invidia a tanta produzione occidentale logorroica sull’argomento. O a Dounja, kiss me not on my eyes – Non baciarmi sugli occhi (Terzo premio, Provincia di Milano) in cui la regista libanese Jocelyne Saab, vissuta in Egitto, denuncia le inibizioni culturali-religiose del mondo arabo contemporaneo insieme al fascino della tradizione e alla necessaria riscoperta della femminilità. Ma, ormai da tre anni, non è l’Africa la sola protagonista del Festival. Le opere degli autori di altri continenti, trascurati dalle majors della globalizzazione e tenute in sordina da queste, volutamente, hanno dato l’immagine di una filmografia alta e forte, di spessore etico e spirituale non indifferente. Storie ambientate nella savana, nelle megalopoli asiatiche, ai confini del mondo: un viaggio verso culture diverse da quella occidentale, con la quale entrano ormai in confronto se non in dialogo, presentandosi così come sono, quasi anzi gridando la loro identità. Così, il secondo Premio Cei, è andato a Vite perdute – Sheng Sis Jie del cinese Li Shaohong che descrive con una solida struttura filmica le contraddizioni della Cina attuale, mentre il primo riconoscimento l’ha avuto ancora l’Africa con lo straordinario La petite Jerusalem dell’algerina Karin Albou – già apparso a Cannes nel 2005 -, dove si affronta con rispetto profondo il tema delicatissimo del dogmatismo religioso. Tante sono le opere passate nella rassegna. Oltre un centinaio che dicono l’anima universalistica del Festival ancor oggi, ma fin dalla sua origine. Infatti – spiega Annamaria Gallone, direttore artistico del Festival – l’edizione attuale offre la conferma della bontà della scelta di dialogare con l’Asia e l’America Latina che hanno presentato lavori di grande bellezza. Nello stesso tempo, l’Africa, dopo il vuoto produttivo degli ultimissimi anni – una realtà da non dimenticare – si è resa presente con corti e documentari di straordinaria efficacia. In più, abbiamo voluto dare una attenzione speciale alla filmografia afroamericana che ormai non è solo denuncia, ma riesce a toccare il tono della commedia, e insieme omaggiare Sotigui Kouyaté, artista completo – cinema – teatro, danza, musica – che mostra tutta la dolcezza e spiritualità della cultura africana. Annamaria è tra i fondatori del festival. Vi partecipa pure come autrice di un film L’abbraccio di Barbara: Sedici anni fa, di ritorno dall’Africa, desideravo farne conoscere il cinema, organizzare una vetrina per un anno intero per diffondere i film che mostravamo durante il Festival. Iniziava da noi un nuovo tipo di immigrazione: bisognava dare agli africani la possibilità di raccontarsi, di esprimersi con un loro cinema, che noi ignoravamo, vedendo l’Africa con la lente deformante del paesaggio mitico, degli animali selvaggi, della miseria e delle lotte: invece, si doveva scoprire un continente ricchissimo di vibrazioni, di storie da raccontare. Il film che ho diretto racconta una di queste vicende: una donna bianca, ma dal cuore nero come il mio, che tuttora vive per duemila bambini di strada, malati di Aids, li nutre, li ama. Quali le tematiche presenti nei lavori dei diversi continenti? Sono quelle che riflettono il mondo contemporaneo, per nulla positivo, anzi tragico. Trapelano sia dai film come dai documentari: lotte, disagi, un po’ ovunque: penso alla Cina dove la maternità viene punita, la condanna a morte sempre procrastinata in un film iraniano, la voglia di affermare il proprio corpo negato in una donna egiziana… Temi molto forti, di denuncia di ciò che sta avvenendo nel mondo, anche se non manca lo spazio per la commedia. E loro, gli autori, come si vedono, come affrontano il mestiere di fare film? Nejib Belkadhi, 33 anni, tunisino, una storia forse simile a quella di altri coetanei, si racconta: Frequentavo economia, ma poi ho scelto di fare l’attore in diversi show televisivi e infine, dal ’98, il cinema. Qui presento un corto Tsawer – fotografie, foto di un amore passato nel tempo ma duro a morire nell’animo. A Cannes presenterò il mio primo lungometraggio, girato dal 2003, VHS: un imbianchino che gira film in vhs con i vicini del quartiere povero, li fa poi vedere nei caffè. La situazione del cinema tunisino attuale? Il Marocco punta ai lungometraggi, ma da noi negli ultimi anni abbiamo vissuto un certo vuoto, resiste la tradizione del cinema d’autore. Ora spero che la nuova generazione di cineasti non punti più solo ai corti…. Cosa ama raccontare? Tutto, usando la fantasia, come Fellini: un regista è infatti uno che si serve delle immagini e della fantasia al servizio di una idea. Anche se il cinema americano è potente dappertutto, credo però che noi dobbiamo dire le cose che abbiamo in cuore. Senza paura. Come ha fatto il Festival che ha istituito per quest’anno il premio al miglior lungometraggio africano senza distinzione di sezione, dando la vittoria all’algerino Barakat! della regista Djamila Sahraouin. Un segno di incoraggiamento per il cinema del Sud del mondo a lottare per far conoscere la ricchezza della sua capacità artistica.