Alla scoperta di Antonio da Padova
Una lettura laica della vita e dell'impegno di questo Dottore della Chiesa
Nessun miracolo davanti ad un potere spietato come quello di Ezzelino Romano, tiranno di Verona. La liberazione dei prigionieri di guerra in una lotta crudele e spietata non avvenne neanche dopo le suppliche e le invettive di un frate ormai consumato dalla malattia. Morirà poco dopo, il 13 giugno del 1231, trasportato su un carro di contadini dai suoi compagni che non riuscirono ad arrivare a Padova provenendo dalla periferia della città.
Tempi durissimi di un cristianesimo inquieto alla ricerca di una conversione sentita sempre più necessaria, anche a costo di provocare divisioni e incomprensioni. Undici anni prima era rimasto segnato dalla visione dei corpi martoriati di Berardo, Pietro, Ottone, Arduino e Accursio di ritorno dal Marocco. Erano gli irregolari di Francesco che si erano lanciati a voler predicare il Vangelo tra i musulmani fidandosi della missione del loro fondatore a Gerusalemme, in piena crociata.
E Ferdinando quel testo, il libro sacro, lo conosceva bene, assieme ai commenti e alle dispute padroneggiate come monaco agostiniano proveniente da una delle famiglie più potenti d’Europa. Possiamo immaginare che avrà compreso in maniera nuova cosa significa che «il Verbo si è fatto carne». Si toglie l’abito e va a piedi scalzi indossando il vestito dei lavoratori comuni dell’epoca.
Di una certa vita religiosa “protetta” ha già conosciuto i tanti compromessi e i patti con la coscienza tanto da voler partire subito per prendere il posto dei francescani martiri. Il mare lo sbatte, invece, sulle coste della Sicilia dove i pescatori, come avviene tuttora, si protendono in soccorso dei naufraghi. La scelta radicale ormai compiuta lo porta a prediligere i lavori umili quotidiani come lavare i piatti di una povera cucina aperta alla condivisione fraterna.
Sono i tempi iniziali dell’avventura di quei poverelli di Assisi che si può ritrovare, fuori dai toni celebrativi e agiografici, nella «Leggenda dei tre compagni». La diversità di Francesco si estende anche alla diffidenza verso i libri. La loro conoscenza può rompere l’uguaglianza tra i frati. Ne intuisce l’origine di una nuova gerarchia che illanguidisce la novità evangelica.
Il Vangelo vuole che sia letto «sine glossa» (senza commento) perché è comprensibile e attuabile da tutti. Non meraviglia perciò quel tono asciutto con cui si rivolge al giovane frate portoghese che ha cambiato nome in Antonio e che circostanze avventurose hanno costretto a rivelarsi nella ricchezza della sua cultura. Lo chiama «mio vescovo» con tono che sembra ironico. E Antonio dovrà allora girare l’Italia e il continente in quel momento decisivo che segna il passaggio nella notte oscura di Francesco sulla Verna fino alla sua morte e alle dispute sull’eredità spirituale.
È il tempo della difesa di quella «libertà della povertà» che continua a rimanere scandalosa. E la cultura che nasce dalla vita («vivere secondo ciò che si insegna») trova in Antonio la modalità di esprimersi. Vive gli ultimi anni nei dintorni della ricca città di Padova come eremita che svela il senso stesso della convivenza. Il quaresimale del 1231 smuove un intero popolo ad una conversione profonda che non può non incidere sulla vita civile. Non si può altrimenti comprendere l’effetto raggiunto della liberazione dalla galera dei debitori per usura.
La novità evangelica rimuove e abbatte le strutture di peccato. Verranno dopo, nel quattrocento, i Monti di pietà (denaro e frumento accessibile a chi non aveva accesso al credito) come espressione del genio francescano. Si giungerà a dire che «finché c’è un povero la città non può essere fraterna».
C’è tanto da scoprire, oltre i miracoli e le bilocazioni, dietro quell’immagine rassicurante di un giovane frate senza barba con un bambino in braccio.
Fernando da Lisbona-Antonio da Padova (1195-1231)