Alla scoperta dell’Africa
Alessandra Conte a Nairobi ha partecipato al congresso panafricano dei giovani dei Focolari. L'occasione per conoscere un intero continente
Di solito il capodanno è associato all'idea di montagne, neve e sciate; a qualcuno, invece, è capitato di passarlo tra zebre e giraffe. No, Alessandra Conte, ventiseienne romana, non è andata a fare un safari: a fine ottobre le era stato proposto di partecipare al congresso panafricano dei giovani del Movimento dei focolari. Occasione inaspettata e subito accolta; ma quale non è stata la sua sorpresa, pochi giorni prima della partenza prevista per il 29 dicembre, nello scoprire che il gruppo al quale lei si sarebbe unita sarebbe arrivato a Nairobi soltanto nell'ultimo dei quattro giorni di congresso: avrebbero infatti preso parte all'incontro delle giovani che stanno valutando l'idea della vita consacrata come focolarine. «Onestamente ero perplessa – ammette Alessandra – e non capivo perché avessero chiesto proprio a me di partecipare: non avevo mai espresso il desiderio di intraprendere questa strada». Ma ormai, si è detta, tutto è organizzato: quindi tanto vale partire, senza alcuna aspettativa particolare su che cosa l'avrebbe aspettata.
E infatti le cose hanno preso una piega diversa da quella dei congressi del Movimento a cui era abituata. Molti dei giovani infatti, arrivando a Nairobi da tutta l'Africa a prezzo di un viaggio spesso lungo e faticoso – un ragazzo si è addirittura fatto sette giorni vogando in canoa, mentre nessuno aveva alcuna notizia di lui – ne approfittano per fermarsi qualche giorno in più: l'incontro che ha seguito il congresso panafricano è diventato così l'occasione non solo per approfondire ulteriormente la spiritualità del Movimento, ma anche per conoscere un continente estremamente variegato ed andare oltre molti dei luoghi comuni che noi europei abbiamo sull'Africa.
Uno dei primi miti da sfatare è quello di un'istruzione superiore e universitaria totalmente assenti: per quanto ci sia ancora molto da fare, infatti, «la maggior parte dei giovani che ho incontrato erano studenti; altri invece lavoravano, magari in una piccola attività artigianale avviata in proprio». Piccoli segni di un continente che si sta risollevando, per quanto questi “casi felici” siano ancora una minoranza. Fondata solo fino a un certo punto la critica che i partecipanti al congresso non fornissero un campione significativo, in quanto costituito solo da giovani che avevano la possibilità di pagarsi il viaggio e la permanenza: «Diversi di loro – spiega Alessandra – sono arrivati lì anche grazie alla solidarietà dei loro coetanei in altre parti del mondo».
Altro luogo comune da superare è quello di un intero continente fatto di villaggi, dove esiste soltanto un'economia rurale e la vita costa poco o nulla: «Basta fare un giro per Nairobi – osserva Alessandra – per rendersi conto di come la ricchezza sia estremamente polarizzata, ed esistano soltanto quartieri estremamente sfarzosi o, viceversa, delle baraccopoli. Lo stipendio medio di un insegnante è di cento dollari al mese: tenendo conto che un kg di carne ne costa almeno cinque, e che un affitto si aggira sui 600 dollari mensili, si capisce perché la gente mangia solo riso e vive in ripari di fortuna».
La cosa che più è rimasta ad Alessandra, tuttavia, è stato l'incontro con le persone. Vedendo la radicalità e l'entusiasmo con cui prendono la vita fin nelle piccole cose, «non ho potuto che sentirmi “in colpa”. In colpa per come noi abbiamo tante possibilità, tanti mezzi e non li sfruttiamo. Ho conosciuto una ragazza che per procurarsi la riflessione mensile sul Vangelo, la “Parola di vita”, si sobbarca sei ore di bicicletta tra andata e ritorno, senza nemmeno la certezza di riceverla: chi di noi “occidentali” sarebbe capace di una simile impresa, anche per cose più importanti?». Per questo, una volta ritornata al suo lavoro di ingegnere gestionale, «mi sentivo svuotata: lì, di fronte al computer, mi sembrava che nulla di ciò che stavo facendo avesse un senso. Senza contare che in Africa, dove avevo vissuto con molto meno in termini materiali, mi sentivo più libera».
Passato lo “shock da ritorno” è comunque rimasta, oltre al ricordo di un capodanno insolito festeggiato sui ritmi della musica africana, una maniera più critica e consapevole di vivere la quotidianità: «Ho imparato a ridimensionare i problemi, a rendermi conto di quanto ho ricevuto e di cosa posso dare. Rimanere in contatto con i tanti nuovi amici che mi sono fatta lì è un grande aiuto in questo senso, oltre che uno splendido dono».
E infatti le cose hanno preso una piega diversa da quella dei congressi del Movimento a cui era abituata. Molti dei giovani infatti, arrivando a Nairobi da tutta l'Africa a prezzo di un viaggio spesso lungo e faticoso – un ragazzo si è addirittura fatto sette giorni vogando in canoa, mentre nessuno aveva alcuna notizia di lui – ne approfittano per fermarsi qualche giorno in più: l'incontro che ha seguito il congresso panafricano è diventato così l'occasione non solo per approfondire ulteriormente la spiritualità del Movimento, ma anche per conoscere un continente estremamente variegato ed andare oltre molti dei luoghi comuni che noi europei abbiamo sull'Africa.
Uno dei primi miti da sfatare è quello di un'istruzione superiore e universitaria totalmente assenti: per quanto ci sia ancora molto da fare, infatti, «la maggior parte dei giovani che ho incontrato erano studenti; altri invece lavoravano, magari in una piccola attività artigianale avviata in proprio». Piccoli segni di un continente che si sta risollevando, per quanto questi “casi felici” siano ancora una minoranza. Fondata solo fino a un certo punto la critica che i partecipanti al congresso non fornissero un campione significativo, in quanto costituito solo da giovani che avevano la possibilità di pagarsi il viaggio e la permanenza: «Diversi di loro – spiega Alessandra – sono arrivati lì anche grazie alla solidarietà dei loro coetanei in altre parti del mondo».
Altro luogo comune da superare è quello di un intero continente fatto di villaggi, dove esiste soltanto un'economia rurale e la vita costa poco o nulla: «Basta fare un giro per Nairobi – osserva Alessandra – per rendersi conto di come la ricchezza sia estremamente polarizzata, ed esistano soltanto quartieri estremamente sfarzosi o, viceversa, delle baraccopoli. Lo stipendio medio di un insegnante è di cento dollari al mese: tenendo conto che un kg di carne ne costa almeno cinque, e che un affitto si aggira sui 600 dollari mensili, si capisce perché la gente mangia solo riso e vive in ripari di fortuna».
La cosa che più è rimasta ad Alessandra, tuttavia, è stato l'incontro con le persone. Vedendo la radicalità e l'entusiasmo con cui prendono la vita fin nelle piccole cose, «non ho potuto che sentirmi “in colpa”. In colpa per come noi abbiamo tante possibilità, tanti mezzi e non li sfruttiamo. Ho conosciuto una ragazza che per procurarsi la riflessione mensile sul Vangelo, la “Parola di vita”, si sobbarca sei ore di bicicletta tra andata e ritorno, senza nemmeno la certezza di riceverla: chi di noi “occidentali” sarebbe capace di una simile impresa, anche per cose più importanti?». Per questo, una volta ritornata al suo lavoro di ingegnere gestionale, «mi sentivo svuotata: lì, di fronte al computer, mi sembrava che nulla di ciò che stavo facendo avesse un senso. Senza contare che in Africa, dove avevo vissuto con molto meno in termini materiali, mi sentivo più libera».
Passato lo “shock da ritorno” è comunque rimasta, oltre al ricordo di un capodanno insolito festeggiato sui ritmi della musica africana, una maniera più critica e consapevole di vivere la quotidianità: «Ho imparato a ridimensionare i problemi, a rendermi conto di quanto ho ricevuto e di cosa posso dare. Rimanere in contatto con i tanti nuovi amici che mi sono fatta lì è un grande aiuto in questo senso, oltre che uno splendido dono».