Alla ricerca del “genere” perduto
È il 1984 quando la rivista accademica Sviluppi su metodo e teoria archeologica (Springer editore) pubblica un articolo dal titolo Archeologia e studio di genere. Le autrici Margaret W. Conkey e Janet D. Spector sono due archeologhe statunitensi che partite da una semplice riflessione di “genere” riescono a compiere una vera “rivoluzione” culturale.
La loro opera in realtà si ispira alla “nuova archeologia” degli anni ‘60 che a sua volta si era prefissa, nello studio delle società primordiali, l’obiettivo di applicare dei criteri che tenessero in considerazione di volta in volta non solo il “ruolo” che in quelle società avevano gli uomini, ma anche quello delle donne che fino ad allora era stato quasi sempre sottovalutato se non completamente ignorato.
Ciò ovviamente non significava dover vedere a tutti i costi nel mondo archeologico arcaico dei “ruoli” di uguaglianza che le donne in effetti non avevano rispetto agli uomini, ma significava non dare a priori per scontato che il “ruolo” della donna in quelle società fosse per assioma del tutto passivo e dunque irrilevante.
Androcentrismo e donne invisibili
All’alba degli anni ‘80 i metodi di ricerca archeologica sulle dinamiche degli aggregati umani preistorici si presentavano ancora troppo condizionati dall’archetipo maschile e dalla “presunzione di invisibilità” della donna.
In questo scenario culturale fecero ingresso nel 1984 Margaret Conkey e Janet Spector che compirono una vera e propria rivoluzione copernicana, dando origine all’archeologia di genere.
Una scienza quest’ultima che nei processi di studio dei reperti stratigrafici si prefiggeva di controbilanciare l’allora dominante posizione “uomo-centrica”, detta “androcentrismo”, proponendo un punto di vista tutto femminile e mettendosi così alla ricerca di un equilibro di genere uomo – donna che non era mai esistito prima o quanto meno era andato perduto.
Il paradosso dell’osso
Il paradigma della “minor forza” femminile, poi, nelle ricostruzioni archeologiche, dava per scontato che la donna fosse destinata a ruoli sociali secondari o cosiddetti “deboli”. Clamoroso è in proposito il riferimento agli utensili preistorici fatti di osso, come ad esempio l’ago, che per il solo fatto di essere materiali duri e difficilmente lavorabili, si dava per scontato, nella elaborazione dei dati archeologici, che a usarli fossero gli uomini.
Si finiva così in un paradosso di genere: l’uomo si appropriava anche di ciò che per antonomasia sarà sempre considerato un lavoro prettamente femminile: l’uso dell’ago.
Da “svergognate” a manager di museo
La “simmetria” tra uomini e donne, grazie all’archeologia di genere ha fatto molti progressi, ma la strada è stata caratterizzata da episodi drammatici e donne straordinarie. Eleonora Bracco ad esempio, una delle più eccezionali archeologhe italiane ed europee di metà ‘900, durante gli anni in cui diresse il museo archeologico Domenico Ridola di Matera, veniva considerata una “svergognata” perché durante gli scavi archeologici, indossava i pantaloni come i colleghi maschi.
Le maldicenze e i continui dispetti che ella subì, per non essersi adeguata al “ruolo di genere” imposto dalle convenzioni dell’epoca, le causarono un forte esaurimento nervoso. I suoi detrattori e soprattutto le detrattrici donne arrivarono a mettere in dubbio la validità delle sue ricerche archeologiche che invece hanno posto le basi per decodificare proprio le civiltà e le culture anche “femminili” del Paleolitico.
Cento anni dopo, il messaggio di emancipazione di Eleonora Bracco ci giunge forte e chiaro e non è un caso che oggi il management di tanti musei sia tutto al femminile.
Il museo stesso non è più considerato come un luogo “maschile” e dove si custodisce e celebra la memoria archeologica dell’”uomo”, ma il luogo che custodisce nel suo grembo la preistoria, le tracce e le impronte dell’umanità così come lasciate egualmente da uomini e da donne.
Equilibrio di genere con “stile”
L’archeologia di genere, a quarant’anni di distanza dal lavoro di Conkey – Spector, ha dimostrato che le donne in concreto, seppur messe in disparte dagli archetipi dell’”uomo cacciatore” e dal pregiudizio dell’innata “inferiorità fisica”, erano la vera forza che consentiva alle società antiche di sopravvivere e di restare coese.
Le conclusioni del nostro viaggio nell’archeologia di genere, però, piuttosto che alle parole le affidiamo allo stile di due pittori del IV sec. a.C.
Il vaso (loutrophoros) che osserviamo a sinistra, ha forma allungata e raffigura una scena di commiato funerario. Nella parte centrale vi è un tempietto (naiskos) all’interno del quale è raffigurata una scena tutta di donne: la defunta è seduta e alla sua destra c’è un’altra figura femminile che le porge un cofanetto aperto, mentre un’altra donna a sinistra la ripara con un ombrellino.
Sulla destra invece osserviamo un cratere in ceramica a figure rosse sempre del IV sec. a. C. e raffigurante anch’esso un tempietto (naiskos) con all’interno tre uomini: al centro vi è il defunto che ha la barba e siede su un sedile (Klismos), il giovane a sinistra impugna un elmo e uno strigile e il giovane a destra solleva la mano verso il defunto, con cui sembra parlare.
La prospettiva che però vorrei suggerire è quella dei 4 personaggi offerenti che sono dipinti ai lati del tempietto: a sinistra in alto vi è un’ elegante e agghindata figura femminile seduta. Al livello sottostante v’è un giovane, con una corona nella mano e un mantello avvolto intorno al braccio sinistra. A destra in alto sempre del naiskos, troviamo un giovane seduto a gambe incrociate e nella parte inferiore, v’è una donna che solleva uno specchio con la mano destra. La rappresentazione di equilibrio pittorico che alterna simmetricamente donna – uomo e uomo – donna è eloquente.
È un messaggio artistico e geniale di parità di genere che è giunto a noi avendo fantasticamente precorso, per la sua epoca, tutti i tempi.
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