Alla prova del governo
Lunghe ore per assorbire il gancio destro che lo ha lasciato dolente e frastornato e poi finalmente l’uscita in conferenza stampa: Pierluigi Bersani ha cercato di affrontare il dopo elezioni con una strategia già elaborata. I punti salienti sono: l’incarico spetta a me perché ho capitanato la coalizione che ha pur sempre preso più voti; mai farò un governo con Berlusconi; il M5S è il primo partito d’Italia e deve assumersene la responsabilità; pertanto ben può presiedere una delle due Camere; non solo, gli spetta di sostenere il programma di governo.
L’ispirazione di questa strategia è quella del governo regionale siciliano, dove il presidente Crocetta, privo di una maggioranza stabile, ha impostato l’attività di governo andando direttamente incontro alle linee programmatiche che hanno portato 15 “grillini” nell’Assemblea siciliana. E lì la cosa funziona. Per la ragione che il M5S non ha bisogno di diventare organico al potere costituito; può scegliere di volta in volta cosa votare e cosa contrastare, ottenendo, magari, le modifiche desiderate.
Il governo del Paese però non può permettersi un appoggio ballerino e non strutturale; infatti, la Costituzione prevede che il governo ottenga la fiducia di entrambe le Camere, votata per appello nominale, quindi a voto palese. Per la Camera dei deputati non c’è problema: la coalizione di centrosinistra ha goduto del premio di maggioranza che l’ha portata d’un colpo a 340 deputati (a fronte di un povero 29,5 per cento dei voti validi); al Senato invece la situazione è davvero complicata, poiché il quadro finale è peggiore del peggiore atteso: neppure la coalizione di centrosinistra più la lista Monti raggiungono la maggioranza, fermandosi a 137 senatori (119 più 18) a fronte di 158 minimi necessari. Se invece ai 119 senatori di centrosinistra si sommassero i 54 del M5S, ecco che la maggioranza non solo ci sarebbe, ma sarebbe anche ben solida. Questo scenario, da “stranissima maggioranza”, è stato prefigurato da Bersani e dai suoi, e per far capire che fanno sul serio hanno proposto al M5S di assumere la presidenza della Camera dei deputati e hanno sciorinato l’elenco dei provvedimenti che certamente incontrano la sensibilità “grillina”: riforma della legge elettorale; taglio dei parlamentari e riduzione dei costi della politica; norme anticorruzione, regolamentazione del conflitto di interessi, oltre ai temi del lavoro e dell’impresa cari a entrambi.
Il ragionamento non fa una grinza, in teoria. In pratica occorrerà verificare se Grillo, il leader del Movimento che ne guida i destini pur dall’esterno delle istituzioni, accetterà di entrare da subito in un governo di cui sarebbe il secondo, contraddicendo per di più le grida che gli hanno dato popolarità (niente inciuci, tutti a casa, ecc. ecc.). E in effetti, di questo tenore sono state le prime reazioni, alle quali Bersani ha risposto dando un appuntamento in Parlamento. Quindi, per il Pd la via maestra rimane questa, magari puntando su un cavillo: un governo di minoranza, come in passato si sono pur verificati, che si regge sull’astensione di una o più forze politiche. Solo che al Senato l’astensione ha valore di voto negativo, quindi per far sì che i 54 senatori del M5S non boccino il governo senza peraltro appoggiarlo, dovrebbero uscire dall’Aula e non partecipare al voto. Ma pensare di dare al Paese un governo di questo tipo appartiene più al mondo dell’illusione che a quello dell’ipotesi realistica, sia perché è molto improbabile che il M5S accetti, sia per l’orizzonte di quotidiano rischio di crisi che aprirebbe. E i mercati, con ogni probabilità, reagirebbero negativamente. L’impressione quindi è che un governo Pd-M5S non possa vedere la luce, specie se a guida Bersani.
Quale alternativa? Per trovare una via di stabilità (via obbligata, dato che siamo anche nel “semestre bianco” e non è praticabile l’altra via estrema, quella del ritorno alle urne) è necessario entrare nella novità di questa legislatura, abbandonando vecchie logiche. Si capisce che un accordo Bersani-Berlusconi è altrettanto improponibile; non di meno, non si può prescindere da un’intesa Pd-Pdl (che includa magari anche la lista Monti). Prima di ricorrere a un altro governo di tecnici, si potrebbe quindi tentare di costruire un governo con un presidente del Consiglio e ministri politici ma rigorosamente estranei alle prime file della competizione elettorale e – soprattutto – alle passate esperienze di governo. Potrebbe essere un “governo di scopo”, cioè avere un programma definito e gestire il ritorno alle urne in tempi brevi ma non brevissimi; oppure avere un destino più duraturo, da conquistare con una buona performance. Facce nuove, competenza, programma chiaro che si misura parimenti con le istanze di rinnovamento portate avanti dal M5S e con gli impegni internazionali, potrebbero essere gli elementi della compagine che, se saprà ottenere i risultati conseguenti, potrebbe contribuire al generale, necessario, improcrastinabile rinnovamento della classe politica, senza lasciarne a Beppe Grillo l’esclusiva. A Giorgio Napolitano, ancora una volta, un compito erculeo che incrocia la storia.