Aligi Sassu poeta-pittore ritrovato

Scultore, mosaicista, scenografo, un talento molteplice per l'arte. 471 sue opere raccolte con paziente amore dall'amico Paglione

Nel ‘900 il sacro, nonostante le apparenze, è un fiume carsico. Rispunta quando meno lo si aspetta. Anzi, talvolta segna l’attività artistica di un uomo, nel caso Aligi Sassu, sardo nato a Milano nel 1912 e morto a 88 anni nelle Baleari il 17 luglio 2000. Una vita lunghissima, laboriosa: incontri, viaggi, mostre antologiche.

Aligi è pittore, scultore, mosaicista, scenografo, un talento molteplice per l’arte: bozzetti per opere liriche (Cavalleria rusticana a Verona, Vespri siciliani a Torino), illustrazioni dei Promessi Sposi, della Divina Commedia, temi civili e storici. E il sacro: il “suo” fiume carsico che scende sotterra e riemerge di continuo. Una produzione ampia, tanto che Alfredo Paglione – mecenate ed amico dell’artista – ne ha tratto uno splendido catalogo ragionato (Silvana Editoriale, euro 45) con saggi di Antonio Paolucci, Gianfranco Ravasi, Bruno Forte, Antonello Negri ed Elena Pontiggia, che getta una luce chiara su di un pittore-poeta di primaria grandezza.

Diciamo “poeta” perchè la trasfigurazione lirica e drammatica nelle opere di soggetto cristiano è di altissima qualità, è canto della sua anima, teatro di emozioni, impulsi, sentimenti e pensieri umani e spirituali quanto mai autentici. Comunicano con noi direttamente, ci trasmettono angoscia e luce, pianto e consolazione.

Rivedo la Deposizione del 1932, una bellezza palpabile e trasumanata insieme nel fondo azzurrino, nelle sagome rosee delle figure, nella mestizia dolce del Cristo morto e del bambino smarrito che lo guarda. Una elegia commovente. Nell’altra Deposizione, degli anni della guerra (1942-43), ora nelle collezioni d’arte moderna in Vaticano, i colori forti e duri, l’agitazione dei presenti, recano il segno della tragedia mondiale che si sta vivendo: nel Cristo morto c’è la morte della civiltà umana. Sul tema della Passione Aligi ritorna spesso. In quella di Cristo infatti vede la passione dell’uomo e la narra nella serie della Via Crucis, in affreschi, mosaici, oli. Ci sono momenti sanguinolenti, come nell’olio, oggi a Loreto, del 1966 dove tre donne piangono un Cristo dal capo riverso nello spasimo della fine: l’orizzonte è rosso come il sangue e insanguina volti e corpi. Oppure, nel 1979 un’acquaforte mostra il Crocifisso che supplica acqua, chiede compassione, come un uomo sfinito dalla tortura. Fino alla stupenda scena di Maria nella Via Crucis, che a braccia aperte veglia il figlio steso, offrendo al cielo e alla terra la sua desolazione. Sassu, che del dolore sotto il fascismo ha provato la presa, sa immedesimarsi nello strazio per una morte innocente.

Ma ci sono anche momenti di luce. Sfolgora come un mare luminoso la vetrata a Desio con il Risorto gigantesco che esce in volo, sole iridato, vincitore abbagliante, uomo nuovo uscito dal terrore (della guerra, della solitudine, della depressione) nel 1972, ricco di speranza. Ma, delle 471 opere raccolte con paziente amore dall’amico Paglione, forse, per chi scrive, la sintesi più densa che unisce dramma a speranza, vitalità ad amore, sta in una maiolica del 1984: l’Angelo dalla Luce, che riecheggia nel volo ardente la Testa d’angelo del 1964. Uno studio, certo, ma quegli occhi chiari e quei capelli alati parlano di trascendenza, della bellezza irraggiungibile che l’arte comunque si ostina ad inseguire. È il volto intimo, segreto, la forza della poesia creatrice di Aligi Sassu.

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