Ali il tassista uzbeco

Comincia con il giovane autista di Samarcanda una serie di ritratti di musulmani che naturalmente veicolano pace e dialogo. Gente comune, gente della misericordia
Uzbekistan

È un immenso stradone, una quarantina abbondante di metri di larghezza, ricoperto d’uno strato d’asfalto tutt’altro che liscio, tutto bozze e avvallamenti, che costituisce la via per attraversare prima il deserto e quindi la zona invece fertile tra Bucara e Samarcanda, via Karshi e Shahrisabz. La via è così mal messa che non riesco, come mio solito, a scrivere sul taccuino le note delle visite trascorse. Sono costretto a guardare fuori dal finestrino. Che cosa? La monotonia. Allontanandosi dalla città santa, la vegetazione intisichisce, fino quasi a scomparire. La noia viene interrotta ogni cinquantina di chilometri, quando la pista diventa d’improvviso un sentiero: un posto di blocco, s’il vous plaît.

Il vento spazza quel poco che ancora resiste alla furia del vento e alla pressione del sole. Eppure d’un tratto appare un grumo di umanità: un banchetto di angurie, o un contadino che vende latte di cammello. L’autista Ali decide di fare una pausa per fumarsi una sigaretta, anzi due. È correttissimo, non fumerebbe mai dentro l’automobile: «Il passeggero ha sempre diritto a respirare aria non inquinata», mi spiega. Si ferma all’altezza di un minuscolo mercatino di meloni e angurie: sotto tettoie di frasche, una dozzina di contadini cerca di vendere qualche frutto dei loro campi. Vedendomi straniero, qualcuno cerca di vendermi anche qualche chincaglieria, con trasporto ma senza troppa pressione. Mi offrono minuscole strisce di melone o di anguria che tagliano sul momento, estraendo i frutti da improbabili frigoriferi di chissà quale epoca. Un contadino vuole offrirmi pure un bicchiere di latte di cammello, che si rivela acido e quasi frizzante, sgradevole al mio palato omogeneizzato. «Non ti piace?», mi chiede un po’ rattristato. Faccio buon viso a cattiva sorte, negando ogni disappunto, e chiedendo quanti cammelli abbia. Mi risponde che ne ha sette, che usa soprattutto per trasporto verso Urgench e il Nord: «Ma non ci guadagno molto e coi soldi che guadagno con il loro sfruttamento i miei sette figli non posso mantenerli. Quindi vendo anche questi prodotti delle terre di mio suocero». Mi spiega che abita in una capanna poco distante, «una capanna fatta di tre capanne», e che i suoi figli vanno tutti a scuola, «quando possono, quando non c’è da lavorare». Non vuole essere pagato. Gli lascio allora una confezione di salviette umidificate, che a lui paiono il regalo d’un re.

I fiumi naturali e i canali artificiali sono gonfi d’acqua, un’acqua che pare più densa del solito, più scura e potente. Mi è anche dato di assistere a una pratica corrente da queste parti, pratica che d’altronde si ripeterà anche più tardi, tra Shahrisabz e Samarcanda, e tra quest’ultima e Tashkent: la multa per eccesso di velocità, rilevata – sia detto per inciso – da “pistole al laser” in dotazione alla polizia, di assai dubbia precisione. Hanno un margine di errore del 40 per cento! Ecco come si svolge la scenetta: l’autista, appena fermato, prima che il poliziotto giunga con estrema calma e con una certa altezzosità all’altezza del suo finestrino, ha il tempo di prendere la patente dalla tasca e di inserirvi tre o quattro migliaia di som, pochi euro, ma qui una bella cifra. Poi il poliziotto afferra con nonchalance la patente e si dirige verso la sua auto. Quindi ritorna dall’autista e gli porge di nuovo la patente. A quel punto l’autista scende dall’auto e comincia a discutere con l’agente. A volte il conciliabolo assume toni concitati, altre rimane nell’alveo di una conversazione tranquilla, quasi familiare. Il resto è fatto di convenevoli e di convenzioni. Al termine, la stretta di mano è obbligatoria. Come è obbligatoria la lunga rimostranza dell’autista col passeggero una volta terminato il teatrino della multa. O meglio, della piccola corruzione al quotidiano, ormai codificata e finanche tariffata.

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