Algeria, voto annunciato
Alla fine il capo di stato maggiore dell’esercito, Ahmed Gaïd Salah, l’ottantenne uomo forte del pouvoir algerino, ha ottenuto quello che voleva: l’annuncio ufficiale della convocazione alle urne per l’elezione del nuovo presidente dell’Algeria, fissata dal capo dello Stato ad interim Abdelkader Bensalah al 12 dicembre 2019. Dopo il rifiuto del popolo, sceso in strada a febbraio per opporsi alla proposta di un quinto mandato per l’82 enne Abdelaziz Bouteflika da 20 anni al potere, il generale Gaïd Salah, per mantenere in qualche modo il controllo della situazione, aveva spinto l’anziano presidente a dare le dimissioni.
Il governo aveva cercato di convocare le urne per il 4 luglio, ma le proteste indignate della folla e la mancanza di candidati credibili avevano bloccato il tentativo abbastanza evidente di mantenere lo statu quo ante: tutto cambia, nulla cambia. L’azione intimidatoria dell’apparato è proseguita tenace con arresti e disposizioni limitative della mobilità, ma l’hirak, il movimento di protesta popolare, da oltre 7 mesi rifiuta compatto qualsiasi elezione gestita dall’apparato di governo.
L’annuncio fatto in questi giorni di una data per la consultazione elettorale è suffragato dal capo delle comunicazioni della nuova “Autorità nazionale indipendente per le elezioni”, peraltro ben poco indipendente. Il portavoce ha reso noto che i candidati sono attualmente 10, e che tra loro vi sono sia rappresentanti di vari partiti che personalità non istituzionali. Ciascuno dei candidati riconosciuti avrebbe presentato, come prescrive la nuova legge organica sul sistema elettorale, una lista con 50 mila firme di cittadini iscritti ai registri elettorali di almeno 25 distretti (con un minimo richiesto di 1.200 firme per ciascun distretto).
Impressionante comunque la tenacia e la coerenza della mobilitazione popolare, che dopo 31 venerdì ininterrotti di proteste, il 20 settembre scorso, accanto allo slogan principale: «Ascolta generale, ascolta generale: stato civile e non militare», continuava a scandire anche l’altra parola d’ordine condivisa: «Silmiya, silmiya», cioè pacifica, pacifica, intendendo la decisione di portare avanti una protesta non-violenta. E silmiya è la parola scritta anche sui gilet orange dei volontari che vigilano sulle manifestazioni e sui manifestanti, anche se non sempre riescono ad evitare episodi di violenza, qualcuno anche grave. Certamente la protesta ha molte anime, conservatrici e progressiste, islamiche ed etniche, con studenti e professionisti, ma rimane in qualche modo unita e incisiva nonostante la repressione e i numerosi leader arrestati.
Sulla vicenda algerina i media internazionali si caratterizzano per un assordante silenzio, sebbene le implicazioni sociali ed economiche in gioco siano notevoli e molteplici. L’Algeria è un soggetto primario per le risorse energetiche, e questo lo sa bene la gente che subisce le conseguenze di inflazione e disoccupazione, ma soprattutto l’élite al potere che finora si è in qualche modo spartita gran parte dei proventi.
Tra i partner economici dell’Algeria, che hanno consistenti accordi con il governo e che quindi sono molto in apprensione sugli esiti della protesta popolare, ci sono anche in prima fila Italia e Francia (amata e odiata dagli algerini), Russia e Usa. E c’è la Cina: i cinesi in Algeria rappresentano infatti la popolazione straniera più numerosa presente nel Paese. Pechino ha investito molto nel Paese maghrebino, soprattutto in un progetto che rappresenta la “via della seta africana”, che collegherà il porto in costruzione a El Hamdania (80 chilometri ad ovest di Algeri) con i giacimenti petroliferi e di gas della Nigeria, passando per il Mali e il Niger.
Sotto sotto c’è una domanda decisiva che i partner stranieri si pongono: il controllo delle infiltrazioni jihadiste attuato finora dal governo ha funzionato, ma se ci sarà un cambio di regime, compresa la democratizzazione auspicata dai manifestanti, il controllo continuerà a funzionare?