Alexia: due settimane per cambiar vita
Alexia a Sanremo. Uno scricciolo con un’ugola capace di spazzar via le fioriere dell’Ariston e una grinta da disintegrare un paracarro. Con una missione da compiere: scrollarsi di dosso le piume da stellina della dance e dimostrare al mondo d’avere diritto d’asilo nel bel mondo della Canzone italiana di più alto profilo. Missione compiuta o comunque molto ben iniziata a giudicare dai consensi ottenuti. “Negli anni scorsi, quando il festival lo seguivo da casa, mi veniva quasi il batticuore solo a immaginarmi di stare su quel palco. Dall’interno è diverso, non c’è tempo per pensare e neppure per agitarsi. C’è una tale confusione, e io sono così piccola che ho rischiato perfino di finire schiacciata dalla calca. Passa tutto in un attimo, e a conti fatti l’emozione più grande la si prova stando dietro le quinte, non davanti: cantare è quasi una liberazione”. Quest’anno più che mai è stato il festival delle donne. Un caso o il segno di qualcosa di più significativo? “Boh, non credo che sia il segno di una nuova tendenza: semplicemente i brani presentati dalle donne hanno convinto maggiormente la commissione artistica. Un caso, tutto qui. E poi a me sono piaciute soprattutte le canzoni dei miei colleghi maschi: Nino D’Angelo, Paoli, Zarrillo e Grignani in particolare”. Molti comunque ti considerano considerano la vincitrice morale dell’ultima edizione. Nella precedente aveva vinto Elisa, anche lei arrivata al festival sulla scorta di un discreto successo internazionale “Sì, ma sono due storie diverse. Elisa ha fatto una partecipazione fine a sé stessa, una parentesi in una carriera sostanzialmente estranea al festival. Per me Sanremo è stata la svolta verso una carriera diversa. Piuttosto mi ritrovo nell’esperienza che in passato hanno fatto Raf e Spagna, artisti arrivati a Sanremo forti di una carriera nel segno della pop-dance internazionale e che lì hanno capito di trovarsi a loro agio e di piacere anche cantando in italiano”. È quello che si coglie anche ascoltando il tuo nuovo album. “Alexia” (Epic- Sony) offre un’ipotesi credibile di rhythm’n’blues all’italiana, ovvero il buon vecchio soul di marca Motown coniugato con le atmosfere del popradiofonico contemporaneo. “Il soul è il genere che ho amato e amo di più. La musica nera è qualcosa che fa parte della mia vita. Quanto al disco è l’inizio di un’avventura completamente nuova: finalmente un disco in italiano, di canzoni, dopo anni di canzonette fatte solo per ballare”. Che sia la formula giusta per provare a far breccia sui mercati anglostatunitensi? “Me lo auguro con tutto il cuore, e non solo per me. Mi piacerebbe poter essere la testa dell’ariete, ma sarà davvero difficile, soprattutto cantando in italiano. Ma non è detto, io la faccia tosta per provarci ce l’ho: mai dire mai!”. Alexia a San Pietro. Appena 12 giorni dopo. Il solito scricciolo, la solita grinta. Ma tutt’altra musica: un paio di classici impegnativi come “Bridge over troubled water” e “Amazing Grace”, da cantare davanti al papa. “Beh, la musica era il particolare meno preoccupante, perché quando c’è da cantare non mi tiro mai indietro. Ma l’emozione di stare su quel palco me la porterò dentro per tutta la vita. L’affetto della gente mi ha aiutato a tirar fuori il meglio di me, a vincere la soggezione per un contesto e uno “spettatore” così particolare. Ti dirò: quando alla fine di Sanremo mi hanno chiesto se ero delusa ho detto di no, che ero contentissima, anche perché ero certa che evidentemente al Signore andava bene così. Così come ero certa che sicuramente Lui aveva in serbo per me chissà quante altre cose. Ecco: ora so che non mi sbagliavo. Anche se non pensavo che stesse per regalarmi una sorpresa così grande”. Hai sempre fatto musica senza altri obiettivi che divertirti e divertire. L’11 settembre – e tutto quel che è seguito – quanto ha influito nella tua vita professionale? “Ha inciso tantissimo. Dopo ciò che è successo per un po’ ho faticato anche a trovare un senso nel mio lavoro: non riuscivo più a scri- vere né a cantare, stavo lì, come tutti, attonita davanti alla tivù a guardare impotente tutto quell’orrore. Poi anch’io, quando ho capito la follia e la stupidità del gesto, ho piano piano ricominciato a vivere”. Sei amatissima dai giovani, soprattutto dai teen-ager. Che consiglio ti senti di dare loro? “Che bisogna avere tanta forza per stare al mondo, ci vuole fiducia in sé stessi e non arrendersi mai. Più si va avanti, e più il gioco della vita si fa difficile. Ma abbiamo tutti un istinto di sopravvivenza che ci fa andare avanti e che ci fa capire come sconfiggere le infinite paure, le ansie del vivere. A 13-14 anni è davvero dura, ma bisogna sforzarsi di pensare che è solo un momento, una fase della vita destinata a passare. C’è solo da tener duro, poi le cose si fanno più chiare e dunque meno angoscianti”.