Alessio Thang, nostro figlio
Mi ricevano nella loro abitazione in un tranquillo quartiere della capitale sorto a ridosso della zona dell’Eur intorno agli anni Settanta. Marco e Maria Concetta Coccagna hanno scelto di far spazio in casa ad un bimbo che arrivava da un Paese lontano. E lo si vede subito. Nell’ampio soggiorno, centro della vita dei suoi abitanti e dei loro ospiti, campeggia un ampio box di legno chiaro pieno di cuscini e di giocattoli, che ospita i suoi giochi ed i suoi tentativi di muovere i primi passi. Quando, naturalmente, non parcheggia in braccio a mamma o a papà, intento a captare suoni, voci, colori di un mondo ancora tutto da esplorare. Alessio Thang – in lingua vietnamita significa Vincitore – il prossimo 15 luglio festeggerà il suo primo compleanno. Un bel salto davvero. Non solo per lui, nato a Saigon, oggi Ho Chi Minh City, e sino a cinque mesi vissuto in un istituto per bambini dell’ex capitale del Vietnam del Sud. Ma anche per i coniugi Coccagna, sposati da dieci anni, ambedue professionalmente impegnati, lui dirigente in una grande impresa multinazionale, lei avvocato civilista. Si sono lasciati prendere per mano dalla vita e condurre in un’avventura entusiasmante – far crescere un bambino dagli occhi a mandorla – che li ha visti alle prese con pappe e pannolini. Com’è maturata in voi la scelta di adottare un bambino? Marco: È stato quando abbiamo compreso che accanirsi contro i nostri limiti fisiologici ci spingeva a ripiegarci su noi stessi e limitava la nostra capacità di guardarci intorno, di vedere le tante situazioni di difficoltà che l’infanzia vive in Italia nel mondo, e rispetto alle quali potevamo fare molto, ad esempio proprio con un’adozione. Maria Concetta: Si è trattato di un percorso di maturazione non immediato, che si è completato proprio quando abbiamo capito che adottare non era un ripiego,ma una modalità diversa di essere genitori, a cui sarebbe forse mancato qualcosa rispetto alla genitorialità biologica, ma che avrebbe avuto anche qualcosa in più. È stato buttare il cuore oltre l’ostacolo e fidarsi del nostro amore reciproco e di una voce interiore che ad entrambi suggeriva che stavamo scegliendo la strada giusta, nonostante qualche paura e qualche incertezza. L’adozione è un percorso lungo e difficile. Come l’avete vissuto? Maria Concetta: Quando decidi di presentare la domanda di adozione, effettivamente inizia un percorso abbastanza impegnativo: adempimenti burocratici, visite e analisi mediche di tutti i tipi, colloqui con psicologo e assistente sociale. Si tratta di elementi che potrebbero essere gestiti meglio in termini di efficienza (la durata dell’iter è decisamente troppo lunga), ma che hanno il pregio di continuare a metterti di fronte alla scelta che hai fatto e di rafforzare il tuo grado di consapevolezza rispetto a quanto ti appresti a compiere. Ci sono stati ripensamenti, momenti di crisi? Come li avete risolti? Marco: In questo periodo di esame possono verificarsi piccole crisi: normalmente appaiono quando, dopo aver fantasticato su un certo ideale di figlio che è quello che tu pensi meglio soddisferebbe la tua esigenza di paternità o maternità (sano, intelligente, bello, dal carattere sereno, possibilmente ottenuto con adozione nazionale…), inizi a pensare che non è detto che le caratteristiche del bambino proposto saranno queste; anzi, che ci siano tutte le probabilità di averlo con altre, ben diverse. Il problema, in questi casi, è che in maniera assolutamente legittima e comprensibile stai affrontando il percorso adottivo solo dal tuo punto di vista, mentre in un’adozione sono due i mondi che entrano in contatto: il mondo delle aspettative dei potenziali genitori, e quello ben più importante delle esigenze di un bimbo che ha bisogno di un papà e di una mamma che lo amino incondizionatamente. Quando riesci a cambiare prospettiva ed entri nel mondo di un bambino che tu hai la possibilità di aiutare a crescere, a diventare adulto e autonomo, tutto si risolve, perché non vedi più lui come motivo di gratificazione, ma capisci che puoi essere strumento per la sua felicità e ricavare gioia proprio da questo e non dal fatto che corrisponda al tuo ideale di figlio. Maria Concetta: È stato importante anche il sostegno dei parenti e di altre famiglie di amici che, a mano a mano che venivano a conoscenza del nostro progetto, ci manifestavano concretamente la loro partecipazione e che, con il loro affetto, ci hanno guidato sino in Vietnam ed hanno gioito con noi quando hanno saputo che Alessio Thang era fra le nostre braccia. Cosa avete provato incontrando per la prima volta Alessio? Maria Concetta: Dopo giorni di preparativi affannosi e un lungo viaggio, il giorno successivo al nostro arrivo in Vietnam siamo andati in istituto a prendere il bimbo. Eravamo quindi molto stanchi e disorientati e le nostre reazioni sono state un po’ confuse: incredulità, riconoscenza per il dono che ci veniva fatto, stupore (era il 22 dicembre e ci sembrava proprio che Gesù bambino visitasse la nostra famiglia), contemplazione. Poi una profonda sensazione di gioia: fin da subito per Marco, e dopo qualche giorno, in maniera improvvisa e intensissima, per me. Marco: Era come se quel bambino, nato cinque mesi prima, fosse nato una seconda volta, proprio per noi e da noi. Non l’avevamo concepito fisiologicamente, Maria Concetta non l’aveva partorito, non gli avevamo trasmesso i nostri geni. L’avevamo però concepito con il cuore, e in alcuni casi anche con la mente e con la volontà, e ora avevamo la possibilità di trasmettergli qualcosa di più dei nostri geni, il nostro amore. Fin dall’inizio ho avuto forte la sensazione che quel bimbo simpatico dagli occhi a mandorla che giocava continuamente con le sue manine fosse mio figlio, quello che Dio aveva pensato per noi. Non importava nulla che fosse nato a 10 mila chilometri da casa, tra persone che parlavano una lingua assolutamente incomprensibile… Anzi, il fatto di averlo incontrato dopo dieci anni di attesa dava ancora più valore a quell’incontro. Ho pensato anche che avevo rischiato di non poterlo conoscere se mi fossi fermato di fronte alla difficoltà di non avere figli naturali e alle paure di cui parlavamo prima; e che tutto quanto vissuto fino ad allora era servito per arrivare a lui, proprio a lui. L’adozione internazionale rappresenta dunque l’incontro con un altro popolo e un’altra cultura. Come avete vissuto questo aspetto? Marco: L’adozione di un figlio proveniente da un altro Paese credo che amplifichi il grado di sensibilità interculturale. Adesso, quando incontriamo un asiatico abbiamo un altro motivo, molto forte, per cui non possiamo pensarlo diverso da noi: dentro lui scorre lo stesso sangue che scorre dentro nostro figlio. Maria Concetta: Il Vietnam è anche il nostro Paese, perché è quello di nostro figlio. La cultura orientale ora ci appartiene. Ed è una responsabilità per noi approfondire la storia e la cultura di quei popoli perché dovremo essere in grado di trasmetterle a nostro figlio, insieme con quella del mondo occidentale. QUEL GRIDO SOTTILE Il primo Osservatorio permanente per raccogliere, analizzare e mettere a confronto i contributi sull’abbandono dell’infanzia nel mondo. È stato presentato lo scorso 20 giugno a Roma dall’Aibi (Associazione amici dei bambini) promotrice del progetto che prevede la pubblicazione entro il 2006 di un approfondito rapporto, mirato anche a sensibilizzare le famiglie all’accoglienza di un bambino in previsione della prossima chiusura degli istituti. L’abbandono dei minori – ha spiegato il presidente dell’Aibi Marco Griffino – non è ancora affrontato come un’emergenza, ma lo è. Di fronte al male dell’abbandono occorre interrogarsi e sentirsi responsabili: serve quindi uno sforzo culturale, oltre che umanitario e finanziario per accogliere il grido dei bambini abbandonati, un grido sottile, che non si sente, spesso non si vede, ma che uccide l’anima di milioni di minori. Dai primi dati anticipati emerge come nell’immaginario collettivo l’abbandono sia più facilmente legato allo stereotipo dei bambini del Terzo mondo. Quasi ignorato, invece, è il fenomeno, altrettanto drammatico, dei minori che crescono negli istituti. Citando gli ultimi risultati Unicef e di altre organizzazioni non governative, l’Aibi calcola che siano non meno di 150 milioni i bambini abbandonati nel mondo. Cifre preoccupanti, anche per i paesi occidentali come la Francia (40 mila abbandoni) e l’Italia (30 mila). Un’emergenza ancor più drammatica perché sottovalutata.