Alessandro D’Alatri: il senso del mio mestiere
Il film “The Startup” parla anche del superamento della linea d’ombra dell’adolescenza? È anche la storia del passaggio dal Liceo all’Università. Tutti abbiamo vissuto una grande incertezza, un grande buio che ti si pone davanti. Devi prendere una decisione che vale per tutta una vita, mentre tu vivi ancora i dubbi dell’adolescenza. L’unico che aiuta Matteo Achilli, il fondatore di Egomnia, è il padre perché, anche se in quel momento si trova disoccupato, non esita a investire parte della liquidazione per avviare l’azienda del figlio. Le famiglie forniscono quel sostegno ai giovani che dovrebbe fare lo Stato.
Il suo impegno per i giovani è sia nella vita che nel lavoro? Ho due figlie ventenni e frequento tanti giovani per lavoro e per i corsi di formazione che faccio. Sono direttore del teatro stabile dell’Abruzzo e porto avanti un progetto proprio per loro. Ho stornato una quota degli investimenti dello stabile sulle giovani compagnie dell’Abruzzo, ho da poco completato un lavoro sul carcere minorile Beccaria dove sono stato tutor di un carcerato minore con un grande talento per la scrittura che ha vinto per due anni il concorso letterario Goliarda Sapienza, rivolto solo a giovani detenuti. Lo faccio nel silenzio perché mi dà più l’impegno che la testimonianza pubblica. Trovo una gioventù molto interessante e sono anni che vivo l’adolescenza e il passaggio alla maturità dentro casa e sul set con attori e tecnici. The Startup è un film con attori che provengono da scuole di recitazione ed è il compimento di questo percorso perché è interpretato da giovani.
Non ha usato la solita furbizia di un cast ben assortito? Ho scelto tutti i ragazzi in base al merito e provengono tutti da diverse scuole di recitazione. Anche gli attori non giovani, non sono conosciuti, ma sono straordinari attori di teatro che si sono prestati anche per piccoli ruoli marginali. Volevo riconoscere il merito per un film senza furbizie e contro la furbizia.
Cosa le resta della storia di Matteo Achilli? Il suo entusiasmo mi ricorda il mio entusiasmo quando avevo la sua età e che, peraltro, per me è immutato, perché continuo a vivere nello stesso modo. Non misuro la mia età dai numeri, ma la valuto dall’intensità della passione che muove la mia vita quotidiana. Questa è una cosa bella da comunicare ai ragazzi. Va fatto.
Il successo, anche nel film “The Startup”, rischia di minare i propri ideali, gli amici … Nella tua vita come lo hai affrontato? Quando è arrivato non me ne sono neanche reso conto perché ero talmente impegnato a fare le cose che avevo davanti che quando succedeva mi faceva piacere, ma poi posavo la statuetta del premio sulla mensola e proseguivo. L’atteggiamento giusto è questo perché il successo è come una droga che altera la percezione della realtà. E se perdi il senso di realtà, perdi anche il senso della vita. Il successo non è un obiettivo. Fondamentale è realizzare i propri sogni, i propri progetti e desideri. Come raggiungi un risultato, l’obiettivo è guardare al prossimo passo. È come una catena di montaggio. Lo denunciai nel film La febbre, dove racconto la perdita della soddisfazione per quello che fai.
Qual è il senso del lavoro? Mio padre era un operaio ed è stata una persona che non mi ha mai comunicato disagio rispetto a quello che faceva, era entusiasta del suo lavoro. Mio nonno era un contadino e non l’ho mai sentito lamentarsi. Oggi, invece, vedo delle persone che hanno un lavoro solo funzionale alla sopravvivenza e questo è terribile. Aver tolto la soddisfazione è un altro mancato riconoscimento. Mio zio tutta la vita ha fatto il postino e mi ha sempre raccontato come il vero servizio non fosse consegnare la posta ma mantenere quel rapporto sociale nel territorio, bussare alla porta e quello scambio di poche parole con le persone, avevano per lui un valore enorme. Oggi il condominio, la cassetta, il portiere hanno tolto il vero senso di quel lavoro. Sono idee che vanno recuperate. Aver tolto la soddisfazione di quello che si fa alle persone non porta bene, infatti siamo una società in crisi, l’imprenditoria è in crisi. Ho assistito al passaggio dall’imprenditore al manager. C’è una grande differenza. L’imprenditore fa il suo lavoro perché dovrà essere consegnato ai figli dei figli dei suoi figli. Il suo lavoro è destinato a durare nel tempo. C’è la soddisfazione e anche aziende fondate in questo modo comunicano questo orgoglio del vivere nel tempo. Il manager, invece, vive perché ci sia quell’0,1% in più nel bilancio di fine anno, al 31 dicembre. Salva la poltrona. È un obiettivo completamente diverso. È la stessa differenza tra pubblico e privato. Il privato combatte per vincere, il pubblico è garantito. Tutto ciò ha generato il disordine in cui viviamo. Questo film affronta esattamente questo tema.
Come il teatro può aiutare la rinascita dell’Abruzzo? È la prima volta che ho accettato un incarico pubblico come direttore del teatro stabile dell’Abruzzo perché non ho mai avuto non solo tessere di partito ma neanche di un club perché chi fa il mio mestiere deve avere una totale indipendenza intellettuale. L’ho accettata con grande determinazione perché ho pensato potesse essere di aiuto all’Abruzzo perché, fino a oggi, non abbiamo neanche il teatro che è crollato con il terremoto. Porto avanti questo progetto come un grande atto d’amore nei confronti del popolo abruzzese tanto e anche quest’anno abbiamo ricevuto grandi riconoscimenti artistici a livello nazionale. Il che significa che stiamo lavorando bene, portiamo il teatro nelle scuole, elementari e medie, perché lì si forma il pubblico di domani. Conoscere il teatro a scuola ha cambiato tantissimo anche la mia vita personale. L’Abruzzo, poi, ha numeri impressionanti di suicidi, divorzi, uso di droghe, in crescita dopo il terremoto e il teatro è la casa comune delle persone per ricostuire le relazioni sociali di una città devastata. Le persone così dimenticano le tragedie. Gli edifici si ricostruiscono, ma anche le relazioni umane hanno bisogno di un progetto di ricostruzione e il teatro offre uno spazio. Sono molto orgoglioso di fare questo lavoro per il teatro anche se sottraggo tempo alla famiglia, al tempo libero, ma dò un senso alla mia vita.
Perché hai scelto il mestiere del regista? In realtà ho cominciato ad 8 anni a fare l’attore. Poi, per caso, ho fatto teatro con Visconti e Strehler dove ho imparato a instaurare un rapporto con il pubblico, a strappare l’applauso, poi sono passato alla tv con I fratelli Karamazov, solo dopo la regia per il cinema e per la pubblicità allo stesso tempo. La pubblicità mi permetteva di guadagnare molto lavorando pochi giorni. Con i soldi viaggiavo in autostop per scoprire il mondo. Ho fatto la gavetta con tutti gli aspetti tecnici e pratici della filiera lavorativa e l’ho fatto in un’epoca in cui i comandi si davano con i fischietti e i fazzoletti, non con i cellulari.
Progetti per il futuro? Sto completando un cortometraggio scritto da uno dei detenuti che conosco, girato dentro una casa circondariale e un allestimento teatrale inedito, rappresentato solo una volta nel 1928, tratto da un’opera di Pirandello: La nuova colonia. A ottobre uscirà In punta di piedi, un tv movie. E aspetto risposte per nuovi progetti, una serie tv e un film d’autore personale. Non mi annoio. Mi cimento sempre in cose nuove come se fosse la prima volta. “Gli esami non finiscono mai” – diceva Edoardo – ed è vero, è uno stimolo a rimettersi sempre in gioco. La vita è come un viaggio, non conta il punto di arrivo ma il percorso che stai facendo.