Alessandra Morelli, curare un mondo in guerra

Dialogo con la funzionaria italiana che ha lavorato per 30 anni come delegata dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in numerosi Paesi segnati da conflitti e da una pluralità di crisi acuite dal passaggio epocale del tempo attuale. L’importanza di mantenere la prospettiva che nasce dalle periferie della Terra alla ricercavdi un cammino di pace possibile riscoprendo la “terzietà” per risolvere le crisi destinate altrimenti a provocare guerre senza fine. Il ruolo possibile per un’Europa che non può illudersi di comportarsi come una fortezza assediata.
Archivio foto campo per rifugiati allestito dall' Unchr EPA/JIM HOLLANDER

Questo articolo-intervista è il frutto di un lungo dialogo con Alessandra Morelli che ha un lungo curriculum di 30 anni di lavoro come funzionaria dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

Morelli si definisce una donna di dialogo e mediazione, ha gestito emergenze in zone di conflitto, mediando e dialogando con governi, la Nato, ong internazionali e locali, organizzazioni intergovernative e gestendo negoziati e operazioni umanitarie e di coordinamento per garantire protezione e assistenza a rifugiati, sfollati interni e rimpatriati nelle aree più fragili del mondo. Ha lavorato in ex Jugoslavia, Rwanda, Albania, Kossovo, Guatemala, Sri Lanka, Sahara Occidentale, Afghanistan, Indonesia, Georgia, Yemen, Birmania, Somalia, Grecia, Niger.

Chi scrive ha conosciuto Alessandra Morelli ad inizio 2024 durante un incontro in provincia di Milano sul tema Africa, BRICS, Guerre e Migrazioni: costruire la pace con la cura, in nuovi scenari geopolitici”.

Un tema che mi ha affascinato avendo da sempre avuto la curiosità di studiare e la convinzione e speranza di credere nella bellezza che può generarsi dall’accoglienza e dagli incontri tra culture, Paesi, progetti, pur nella complessità e pur, talvolta, nelle crisi che questi incontri possono generare.

Alessandra Morelli in quell’incontro mostrava, con un’intensità e al contempo lievità, una saggezza costruita negli anni del suo lavoro alla ricerca dell’umanotra le situazioni più pericolose del mondo – guerre e tragedie umanitarie in primis – in cui ha toccato con mano gli effetti distruttivi dei comportamenti disumanizzanti di cui può essere capace l’uomo.

Da questo incontro è nato un bellissimo dialogo che mi ha portata a scoprire cosa abbia rappresentato per lei il vero antidoto alla guerra, in 30 anni di lavoro sul campo con UNHCR.

Alessandra, in che mondo ci troviamo oggi?
Per rispondere a questa domanda, mi piace partire da quello che è stato il mio sguardo “periferico”, nei miei 30 anni di lavoro immersi con tutta la mia fisicità nei conflitti più importanti del globo. Situazioni conflittuali che hanno generato grossi vuoti e innestato a loro volta nuove guerre e tanta violenza sulle popolazioni civili. Coltivare uno sguardo periferico apre la capacità di ascoltare il grido della sofferenza dell’altro e aiuta a riconoscere l’umano là dove l’umano non è più riconosciuto a causa della guerra, della frammentazione, della povertà e delle rotture che si generano.

Cosa significa questo sguardo periferico?
Lo sguardo che mi ha sempre aiutato, e mi aiuta tuttora dopo 30 anni di lavoro in UNHCR, a tenere l’attenzione “ai margini”, riconoscendo l’umano là dove l’umano non viene più riconosciuto a causa dei conflitti, della guerra, del caos economico, sociale, ambientale che ne consegue.

Il mondo di oggi è un mondo frammentato, frutto di alcuni macro-fenomeni della storia recente che hanno contribuito ad allontanare sempre di più la possibilità della pace e del dialogo tra i popoli. Con la globalizzazione, un ristretto club di privilegiati si è arricchito, e chi non è parte di questo “club” rimane ai margini. Con la caduta del muro di Berlino, inoltre, la depolarizzazione e frammentazione conseguenti hanno comportato gravi difficoltà e indebolito la capacità di dialogare tra i Paesi. Anche con un’altra caduta, quella delle Torri Gemelle, nel mondo si è generata una nuova paura, la paura del terrorismo e la convinzione radicata di essere in continuo pericolo. Di conseguenza, nuove campagne e operazioni di guerra alla rincorsa dei terroristi sono state giustificate e volute per assicurare la forza-pace all’interno dei Paesi occidentali.

Il contesto attuale è un contesto di profonda trasformazione e di trasformazione antropologica. Siamo immersi in una policrisi: tante crisi che si vanno ad agganciare, ad ampliare l’una con l’altra. Le guerre, la povertà, i mal governi, le crisi climatiche, politiche: l’effetto che si genera è che tutte queste crisi si raggruppano e si uniscono e l’impatto sull’umano diventa molto forte.

Quali sono i segni evidenti di questa policrisi? E qual è la “temperatura” del mondo?
La temperatura del mondo ce la dà chi è costretto a fuggire. Secondo le cifre dell’ONU sono 120 milioni quest’anno le persone sradicate, in cerca di un luogo in cui ricominciare a vivere e siccome le guerre non hanno fine non c’è la possibilità di rientrare nelle terre d’origine. Senza accorgercene, stiamo decostruendo invece che costruire, ed è più facile scivolare nel disumano.

Siamo davanti ad un cambiamento d’epoca in tal senso, ad un terremoto da fine guerra fredda, in cui la democrazia fa fatica a vivere la sua vera vocazione e diventa talvolta una “democratura”. Siamo davanti a guerre che iniziano e non finiscono, perché abbiamo perso la capacità di usare la parola come “luogo” dell’umano per eccellenza, come ponte e come strumento di dialogo, di spazio d’intesa. In tal senso, non abbiamo più mediatori: ognuno è dentro il conflitto dell’altro. Lo vediamo oggi in molte zone di guerra, come in Ucraina: chi può mediare quando una parte del mondo dona delle armi ad uno schieramento ed un’altra parte le dona all’altra?

Cosa ti hanno insegnato 30 anni di lavoro immersa nei conflitti?
I miei 30 anni di lavoro mi hanno fatto capire che l’umano soffre alla stessa maniera. Un umano offuscato, ferito, che viene “messo fuori” dal progetto di comunità umana, perché diverso, per convenienze (politiche ed economiche) o perché è di ostacolo a progetti estremisti, come quello del jihadismo. A quest’ultimo proposito, ci stiamo dimenticando di ciò che accade ad esempio in Afghanistan, in cui vi è una persecuzione costante e sistematica verso le donne che non hanno diritto di esprimersi, studiare, evolversi e sognare il proprio futuro. Spesso le donne vengono “messe fuori” dai progetti di comunità umana, nei conflitti e in molte società.

Il dna dell’UNHCR è stato sempre quello di garantire una protezione, garantire spazi d’asilo alle persone che scappano o sono vittime di conflitti internazionali, ma è anche quello di rammendare l’anima ferita, ricostruire la dignità calpestata. È da qui che, pensando al mio lavoro e alla nostra società, sostengo fortemente che ci sia bisogno oggi – nell’attuale contesto sociale, politico ed economico – e più di prima di “cura”. È l’unico antidoto che custodisce l’umano, dopo aver visto con i miei occhi e vissuto in prima persona la capacità dell’essere umano di distruggere e autodistruggersi.

Rispetto ai grandi conflitti a cui stiamo assistendo, pensando in particolare ai giovani, esiste il tempo della speranza e da dove nasce?Credo fortemente che il tempo della speranza nasca dai piccoli momenti, dall’assumersi la responsabilità di vivere queste trasformazioni e osare, non avere paura e avere il coraggio di tentare nuovi cammini. Il cambiamento d’epoca di cui abbiamo parlato può essere un motivo di speranza perché è da lì che si possono tentare nuovi percorsi e questa responsabilità è in mano alla società civile, non solo a chi governa. È urgente che tutti insieme ci alziamo per intraprendere nuove strade.

La speranza può rinascere anche riappropriandoci del significato delle parole: solidarietà, accoglienza, ospitalità sono parole fortissime che generano risoluzioni di crisi. Noi oggi le abbiamo svuotate, la politica le ha svuotate. L’accoglienza è diventata uno spazio che toglie la nostra identità. L’ospitalità è vista come un guaio, ci siamo dimenticati che è parte della nostra cultura mediterranea l’ospitalità senza discriminazioni. Essa porta con sé il valore dell’essere liberi, del non avere “leggi che costringono”. Non possiamo cambiare il significato delle parole a nostro gusto, altrimenti ci chiudiamo e le chiusure e le manipolazioni delle parole e dei suoi significati alimentano le dittature.  Ecco perché non esiste democrazia senza ospitalità, accoglienza, rispetto, inclusione: l’accoglienza è la cartina tornasole di una società matura. La democrazia è fatta di parole dell’umano che generano bene comune, altrimenti siamo nel suo contrario.

Che cosa manca a tuo parere oggi per la risoluzione delle crisi?
Manca la terzietà. L’Europa ad esempio in questo momento si è chiusa in fortezza, non è più una parte che media. Basti pensare che esternalizza le frontiere per non accogliere, è un’Europa che punta al riarmamento, e mai come in questi anni questo è diventato una priorità principale di ogni Paese. Lo si vede anche in certe parti dell’Africa. Oltre al riarmamento, si sta diffondendo la convinzione che questo sia l’unica via di risoluzione dei conflitti possibile. Non c’è più la mediazione, il dialogo. Non c’è più la fatica di tessere con la parola: parola come incontro, dialogo, parola che guarisce, consola e dà speranza, che poi porta a costruire il bene comune che è la pace.

I potenti del mondo non dialogano più tra loro e non dialogano più con le Nazioni Unite, che era la speranza del dopo guerra, del “mai più conflitti” perché c’è un luogo privilegiato in cui dialogare, per raggiungere quel “win-win”, il compromesso. E questa è una delle ragioni per cui le Nazioni Unite hanno perso peso e credibilità, ma ricordiamoci che le Nazioni Unite siamo noi, non è una terza parte.

Da dove si può ripartire?
In tale contesto vedo la necessità di ripartire con i sentimenti del pacifismo. Anche la società civile non ha spazi per potersi esprimere, sono poche ormai le marce per la pace. Gandhi in passato aveva scritto a Hitler scongiurando la Seconda guerra mondiale. Chi sono gli intellettuali oggi che lo fanno? Assistiamo alla difficoltà ad arrivare ad un cessato il fuoco, ad aprire corridoi umanitari. Quello che spaventa non sono solo le armi convenzionali ma anche il puntare sempre di più su nuove armi: fame, stupro, impunità, abbattimento di ospedali e scuole. Queste sono armi. Quando sentiamo che viene bloccato un convoglio umanitario per non distribuire cibo quella è un’arma. Lo vediamo a Gaza ma anche in tanti angoli nascosti del mondo.

Intravedi nella “cura”, usando un gioco di parole, la “cura per eccellenza” per ricostruire il tempo presente, perché?
La cura è l’antidoto alla guerra, a qualsiasi conflitto. È vero, oggi è difficile trovare soluzioni, si fa fatica e quindi ci chiudiamo in un’autoreferenzialità perché sempre meno facciamo rete ma sta a noi uscire da questo fenomeno e fare il primo passo. Siamo destinati a vivere nel noi come sosteneva Zygmunt Bauman. Quando usciamo dal “noi” avviene una decostruzione, non costruiamo più. Allora la cultura della cura è cultura della responsabilità, della partecipazione, della relazione. La partecipazione è sola e sorgente della democrazia, è l’innesco del noi. Non dobbiamo rassegnarci, viviamo una transizione, forse una delle più critiche e occorre riappropriarci delle parole. Si dice che siamo in una società di mercato. La società è un mercato? Dobbiamo ricostruire, questa è la nostra speranza. Ricostruire spazi di incontro e spazi di relazione: la cura è relazionalità, la cura è incontro. La cura è fondamentale nei cambiamenti, nella transizione, perché ci insegna ad abitare la terra e la vita dallo sguardo “dal margine”. L’inumano è una costante dell’umano stesso, ecco perché la cura è rivoluzionaria: ricostruisce spazi di umanità, dentro e fuori di noi.

Hai toccato con mano l’inumano, le ferite. Come si ricomincia dalle ferite, dai conflitti? Ci può essere cura senza che vi sia giustizia?
Il cammino della cura deve passare anche dalla giustizia e dalla riparazione, non si possono nascondere le ferite ma occorre dare un volto nuovo alle stesse. Questo non si può fare da soli, ma serve la terzietà, la terza parte. È un cammino umano di grande compassione, quello che coinvolge il mediatore, che si mette tra le due parti in conflitto. La terzietà, ad esempio, è fondamentale nella giustizia riparativa. Bisogna lavorare affinché ci sia la terzietà, che rimette insieme i cocci per dare un senso nuovo. Oggi si rimane spesso “fuori”, indifferenti. Non bisogna dimenticarsi delle ferite altrui ma occorre essere terze parti per avviare processi di trasformazione. È per questo che credo fortemente nei tessitori, nei rammendatori, perché portano fuori dalla dinamica dell’autoreferenzialità.

Questa è la speranza per me: essere terze parti, avere il coraggio di iniziare cammini nuovi per condividere la responsabilità della pace.  Come diceva George Bernard Shaw, infatti, il peggior peccato contro i nostri simili non è l’odio ma l’indifferenza che è l’essenza dell’inumanità.

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