Alcune domande a Kim Rossi Stuart

Perché un film sull’infanzia? Chi lo sa… Può essere che, volendo fare le cose con un certo ordine ed essendo io un bambino dal punto di vista registico, abbia scelto di partire da un bambino vero. Forse, con gli sceneggiatori, desideravamo tornare a guardare il mondo con gli occhi dell’infanzia: un periodo così importante della vita che non andrebbe mai perso di vista. Questa penso sia stata la spinta fondamentale. Qual è il senso del film? Non credo di aver fatto un film a tesi. Questa storia si potrebbe raccontare da diversi punti di vista. La potrei definire una storia d’amore tra padre e figlio, di due esseri innamorati della stessa donna. Forse, una tesi finale possibile è quella che noi adulti rischiamo di commettere errori molto più pesanti di quanto facciano i cosiddetti piccolini. Come hai recuperato la capacità dei bambini di vedere il mondo complicato degli adulti con il loro sguardo di limpidezza? Ad un certo punto è la storia stessa che ha preso il comando. Certo, non abbiamo voluto raccontare un’infanzia agiata e spensierata, nemmeno usare gli stereotipi dei buoni e dei cattivi, ma una storia con due genitori complessi e contraddittori. Ho impiegato mesi a cercare il bambino adatto al ruolo, andando nelle scuole, nelle piscine, nei campi sportivi. L’ho trovato in una scuola di Ponte Lanciani, una zona tra centro e periferia. Lui non è venuto fuori subito, ma in seguito: nella sua normalità mi sembrava avesse delle cose nascoste, e poi gli piaceva improvvisare al provino, tanto che ha voluto ripetere il gioco…. Un film sui bambini, ma anche sugli adulti di oggi che spesso non crescono. Abbiamo cercato dei personaggi-genitori aderenti alla nostra realtà attuale, li abbiamo seguiti con amore descrivendo le loro personalità problematiche, che non sono negative tout court. La madre che appare e scompare è il motore della storia, con le sue nevrosi, il padre è più lineare nelle sue fragilità. Volevamo però pure dare al film un tono positivo, solare: il nostro bambino non vive una infanzia infelice, anche se dura, solitaria, con una presa di autonomia precoce. Se siamo riusciti ad assorbire le problematiche attuali con il nostro film, ne sono ben contento. La figura del padre è quella di un uomo lacerato. Bestemmia anche, ad un certo punto. Non è una bestemmia provocatoria – avrebbe anche potuto non esserci -, io la sento profondamente cristiana: fa parte del percorso di un uomo che sta sull’orlo del baratro, perde la fiducia nella vita, in sé stesso – è un piccolo arco di spiritualità questo momento del film -, perciò emette questo grido di dolore che fa male, ed è funzionale al momento in cui il bambino ritornerà dal padre con un abbraccio che è una dimostrazione d’amore. Barbora Bobulova interpreta una madre che quasi sprofonda nel suo baratro emotivo. Tu, invece, sei Renato, il padre. Il ruolo di Barbora è stimolante: io ho cercato di comprendere questa figura senza giudicarla. La Bobulova era perfetta nel ruolo per la sua grande capacità di concentrazione e per la leggerezza che porta con sé. Quanto a me, ho interpretato il padre perché l’attore che doveva farlo ha avuto problemi… Mi sono trovato a fare un triplo salto mortale, ma questo forse mi ha dato più coraggio. Il tuo primo film a 37 anni. È il momento buono? A 20 anni portai al mio agente una sceneggiatura: giustamente, rimase cauto. Durante questi anni ho imparato molto dai registi che ho frequentato, come Gianni Amelio, con il suo modo di lavorare con i bambini ne Le chiavi di casa. Ma io non sento di dover scegliere fra regista e attore: la cosa più bella è poter passare da una forma all’altra, come ho già fatto con cinema teatro e televisione. È positivo, per me, avere una vita varia. Poi, da regista puoi metterti più a nudo che come attore. Regia di Kim Rossi Stuart; con Alessandro Morace, Barbora Bobulova, Kim Rossi Stuart

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