Alcesti: «Non perché viviamo, ma per chi viviamo?»

Intervista a Massimiliano Civica, regista della tragedia di Euripide, che s’interroga sul bisogno d’amore. Un evento unico, in scena a Firenze, all’interno del suggestivo complesso quattrocentesco dell’ex carcere delle Murate
Il cast dell'Alcesti

La storia di una donna che è il simbolo stesso di un sacrificio in nome dell’amore ci riporta ad una “lentezza” in cui il tempo per scegliere è il ritmo stesso cui marcia una vita, non priva di senso. Un solo mese di repliche (fino al 26 ottobre) nel Semiottagono dell’ex carcere delle Murate e, volutamente, nessuna tournée prevista. Venti spettatori alla volta. Un cast pluripremiato e un percorso di approfondimento gratuito per giovani e per il pubblico, per questo progetto in debutto assoluto, prodotto da Fondazione Pontedera Teatro e Atto Due, in collaborazione con il Comune di Firenze.

Non è solo il debutto di uno spettacolo, è un progetto che propone una precisa modalità di “fare teatro”. In uno spazio e un tempo definito e non replicabile ci si concentra ancora su quella parola, “insieme”, ovvero sulla qualità della relazione attore/spettatore. Il vincolo del “qui e ora” cui è costretto il pubblico libera dall’illusione del “tutto e sempre” della rete globale e da alcuni altri paradossi contemporanei.

 

Nelle sue note di regia scrive: «L'Alcesti di Euripide è una tragedia che “dice” l’ineluttabilità della morte e l’obbligo che abbiamo di scegliere come vivere». Cosa significa?

Pone una domanda che dobbiamo imparare ad accettare come ineludibile: se dobbiamo morire, se dobbiamo a un certo punto perdere tutto, se non possiamo esserci per sempre, che senso ha vivere? La risposta suona scandalosa alle nostre orecchie di contemporanei: la vita ha senso se scegliamo di vivere per qualcuno, se siamo pronti a sacrificarci per qualcuno. Non perché viviamo, ma per chi viviamo?

 

Alcesti sceglie di morire affinché suo marito continui a vivere…

E nella tragedia, per questo suo sacrificio, per questo suo atto d'amore, avviene il miracolo che la riporta in vita, accanto al suo amato. È solo una favola e Euripide lo sa bene, infatti non ci consola, ma ci offre in sacrificio il solo miracolo consentito agli uomini, quello di trovare un senso nell'amore. Il messaggio è chiaro: il teatro non è contemporaneo, è eterno e per accorgersene basta anche una sola sera, come per creare una relazione.    

 

In che senso “il teatro non è contemporaneo”?

Il teatro non è contemporaneo, perché è il solo luogo dove la morte è ancora presente. Oscenità del teatro, quella di ricordarci che dobbiamo morire, che non abbiamo tutte le possibilità, ma solo la possibilità di scegliere. Il teatro, insieme alla morte, è il rimosso dalla nostra società della realtà espansa, della connessione perenne, del sempre presenti dappertutto.

 

Il teatro, quindi, è mortale. Accade in un luogo e non in un altro. Davanti a delle persone, solo quelle che sono lì. Accade stasera e quando finisce non c’è più. Si sceglie di andare a teatro e di perdersi tutto il resto…

Ma oggi non c'è niente da perdere, non ci perdiamo niente. La pubblicità ci rassicura: possiamo andare a cena con la nostra fidanzata e seguire la partita di calcio sul nostro tablet poggiato sul tavolo. Siamo dappertutto, insieme a tutti. Mentre bevo, al pub, una birra con i miei amici, chatto, tramite whatsapp, con altri amici che sono in discoteca. Sono in cameretta, sdraiato sul letto, a fare una visita virtuale attraverso le sale del Louvre. Sono a Milano, ma seguo in streaming il convegno che si svolge a Roma. Non mi sento mai solo, ci sono così tanti amici che non aspettano altro, alle sette di mattina, che di sapere da un mio un post su Facebook che sto passando dal bagno alla cucina per bere un succo. Non ho bisogno di essere presente alla serata inaugurale: viviamo in un eterno presente soggettivo e personale, in cui per ogni evento è prevista una replica, la possibilità di assistervi in registrata, di riguardalo su Youtube, di riascoltarlo in podcast. Con mysky il film inizia ogni volta che lo vogliamo noi.

 

La sua regia parte dallo spazio, che non essendo riconducibile a nulla di teatrale, ha il compito di “pulire” lo sguardo degli spettatori…

È così. Nella sala del Semiottagono si accede attraverso una lunga galleria, una specie di diaframma che separa la città da questo luogo intimo, scandito nel suo vorticoso sviluppo verso l’alto, da una serie di ballatoi su cui si affacciano le porte delle vecchie celle. Il pubblico si dispone su un’unica fila di sedie, a circondare l’azione scenica. Le attrici Daria Deflorian e Monica Piseddu, attraverso l’uso delle maschere, danno vita a tutti i personaggi della tragedia: déi e mortali, servi e nobili, uomini e donne, vecchi e giovani; mentre la cantante/attrice Monica Demuru ha il compito di reinventare il canto della tragedia greca, ricercandone gli echi più profondi.

 

Una messinscena essenziale, irripetibile, e per questo unica…

L’unicità sta nell’essere in un luogo, in e per un tempo stabilito, ad incontrare le persone che sceglieranno di stare con noi. Un accadimento, non un evento.

 

Allo spettacolo è stato affiancato un percorso di approfondimento per giovani artisti e tutti gli interessati, in due fasi, dal titolo “Leggere il teatro”. La seconda sarà dal 20 al 24  ottobre, con cinque incontri (per massimo 50 partecipanti), a Firenze, con il regista per indagare la relazione tra il testo e la complessa pratica di messa in scena nel Teatro Greco e in particolare nell’Alcesti, che evidenzia come il suo significato più profondo risieda nella rappresentazione più che nella forma letteraria.

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