Alberto Sordi uno di noi
Il gioco della torre è sempre antipatico, ma se si dovesse scegliere una faccia che per familiarità e popolarità fosse l’espressione di tutto il cinema italiano, questa sarebbe quella di Alberto Sordi. Forse ancor più del volto di Totò. Il perché è presto detto: in sessant’anni di carriera e più di 150 film, l’Albertone nazionale ha impersonato l’italiano-tipo, con tutti i suoi piccoli difetti (il seduttore da strapazzo dello Sceicco bianco, lo sfaccendato di Un giorno in pretura, l’americanofilo di Un americano a Roma, il pusillanime di Un eroe dei nostri tempi). Ma anche con un briciolo di orgoglio e qualche virtù nascosta (il tenentino di Tutti a casa, il romanaccio opportunista di La grande guerra, il giornalista di Una vita difficile che all’umiliazione preferisce una fame dignitosa). Insomma, Alberto Sordi era uno “de noantri”, e non a caso proprio Di Noi si chiama il protagonista di Detenuto in attesa di giudizio, dove Sordi si cala da par suo in un argomento di grande attualità come quello degli errori giudiziari, delle aberrazioni del sistema carcerario e delle lungaggini burocratiche. Eppure i suoi esordi nel cinema furono stentati, proprio per la sfida alle regole vigenti, per il coraggio con cui Alberto Sordi andava controcorrente nel portare sullo schermo un personaggio in negativo, codardo, piagnucoloso e mammone, che dell’eroe vecchio stampo e tutto d’un pezzo non aveva proprio niente. Ma dopo qualche tempo lo stesso pubblico che all’inizio gli aveva voltato le spalle scoprì la propria autenticità nella maschera grottesca di questo personaggio. Come altri divi italiani, quando negli anni Cinquanta il cinema di casa nostra era il secondo del mondo, non si era lasciato irretire dalle lusinghe hollywoodiane. Anzi, della sua romanità aveva fatto non solo il centro nevralgico del paese, ma addirittura l’ombelico del mondo. A una casa e a una famiglia aveva anteposto, dedicandogli tutto sé stesso, il suo pubblico. E aveva custodito, gelosamente, tanti piccoli segreti della sua vita privata: dalle relazioni sentimentali mai condivise con i rotocalchi alla vociferata tirchieria (smentita da munifici atti di beneficenza in favore di istituti di anziani e bimbi abbandonati), via via fino al male che negli ultimi tempi lo stava consumando. Pochi hanno fatto gavetta come lui, formandosi non nelle aule scolastiche, ma sul terreno della vita. L’avanspettacolo, la radio, il doppiaggio (attore già affermato non rifiutava niente, neppure poche battute e si adattava a tutto, anche a parlare spagnolo, come nel celebre dialogo fra il sergente Pedro Armendariz e il gran capo apache Kociss nel Massacro di Fort Apache di John Ford). Il suo mentore fu Federico Fellini, che, testardo e a dispetto dei produttori, lo volle nello Sceicco bianco e nei Vitelloni nonostante l’antipatia che nei primi anni Cinquanta il pubblico dimostrava per lui, ancora idealmente collegato al personaggio radiofonico di Mario Pio e all’insuccesso del film Mamma mia che impressione. Ma è solo questione di tempo, perché con I vitelloni, con il personaggio del mammone nullafacente e scansafatiche che indirizza un gesto oltraggioso agli operai che lavorano sulla strada, arriva il consenso. E, subito dopo, le variabili di questo personaggio – dal giovinastro vanesio e mitomane di Un americano a Roma al piagnone di Un eroe dei nostri tempi, dall’intrallazzatore dell’Arte di arrangiarsi al servile Vigile, dall’infido Vedovo allo sbruffone megalomane mediconzolo del Medico della mutua al guitto di Polvere di stelle – dilagheranno in una girandola di fuochi d’artificio, un diadema che strada facendo si arricchirà di tanti altri preziosi gioielli. Quando la Rai gli sottopose il progetto di un’autobiografia, Sordi replicò dicendo che non ce n’era bisogno: bastava prendere i suoi film, disporli nell’ordine cronologico dei periodi in cui erano ambientati e collegarli l’uno all’altro con commenti adeguati. Convennero che aveva ragione e che quella era la soluzione migliore. Storia di un italiano nacque così. E infatti c’è più Italia nei suoi personaggi e nei loro caratteri che in cento rapporti del Censis.