Alberto Sordi e il suo amore per Roma

Cent'anni fa, il 15 giugno 1920, nasceva il grande attore Alberto Sordi. E se il lavoro fu la sua passione, il suo amore fu Roma, la sua città, celebrata in tanti dei suoi film.
Alberto Sordi foto di Luciano Trasatti / Mario Bonnard - archivio personale, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=41847324

Se il grande amore di Alberto Sordi è stato il suo lavoro, il primissimo e mai dimenticato è stato quello per Roma, la sua città: lei bellissima e lui profondamente innamorato, conoscitore di ogni suo angolo, del suo carattere, di quella romanità di cui, proprio per questo, è divenuto simbolo.

Sordi, Roma non l’ha lasciata mai. È vero, andò a Milano da ragazzo, per tentare l’accademia, ma quando si rifiutò di mettere due erre alla parola guerra, perché le persone che conosceva lui non le usavano, perché a Roma si diceva “guera” e l’attore doveva raccontare la realtà, capì che era tempo di tornare, e da allora non se n’è più andato.

L’ha omaggiata sempre, Roma, Alberto Sordi: quella città che amò da subito perché trasteverino di Via San Cosimato, di quando trastevere era un paesino e c’era un continuo vociare e nessuno si perdeva la festa del Carmine o dell’Immacolata concezione. E il sabato si andava da Pasquino a prendere lo squaglio con la cioccolata e i maritozzi con la panna.

Sulla strada dove nacque, oggi, cent’anni dopo la sua venuta al mondo, c’è una targa: “attore ed indimenticabile interprete della storia di ogni italiano, parte indelebile di ognuno di noi”. A Santa Maria in Trastevere faceva il chierichetto, solo che durante la messa si sentiva già un attore e giocherellava, e il prete se la prendeva.

Di Roma si innamorava giorno per giorno: San Pietro la scoprì mano nella mano con suo padre, a tre anni. Non c’era ancora via della Conciliazione e per arrivare nella grande piazza bisognava attraversare un lungo dedalo di vicoli. Quando d’improvviso la vide, maestosa, Alberto rimase senza fiato. Ed è bello quel discorso, molto tempo dopo, sul sagrato della Basilica, per il Giubileo degli artisti nel 2000, che l’ormai celebre Sordi fece davanti a Giovanni Paolo II: era la chiusura di un cerchio gigantesco.

Ed è come se quell’amore partito dal cupolone si fosse poi irradiato in tanti angoli della citta grazie ai suoi film e alla sua vita. Dappertutto, a Roma, c’è Albertone. Le sue facce stanno nei bar, nelle pizzerie, le sue impronte in Via Asiago, in quella radio dove inventò personaggi mitici come Mario Pio. Stanno sul Portico d’ottavia al ghetto, dove c’è una sequenza memorabile di Un Americano a Roma; nella Galleria Colonna, che dal 2003 è dedicata proprio a lui, e nella quale girò una sequenza dello spassoso Polvere di Stelle.

C’è Sordi in Via di Santa Maria in Monticelli, dove abita il personaggio di Nando Mericoni, e sempre in Un americano a Roma c’è il Colosseo con Nando che ci sale addiriittura in cima. Ci sono le vedute, gli incantevoli scorci de Il marchese Del Grillo, con via de li Banchi vecchi, via delle Coppelle e il teatro di Marcello.

E poi il Pincio, Porta settimiana e Viale Libia nel bellissimo Il segno di Venere, e ancora il Casillino e Ponte Lanciani in Ladro lui ladra lei. C’è la Rai di Via Teulada ne I complessi e l’Eur in La mia signora. E pure il finale de Il boom – quell’importante film in cui è costretto a vendere un occhio – è girato all’Eur, in Via dell’Oceano Atlantico.

A Via Ciro il grande, sempre allEur, ci sono sequenze de Il medico della mutua e di Un borghese piccolo piccolo, con quell’interpretazione di Giovanni Vivaldi, il personaggio che da vittima si trasforma in assassino, già defintivo per dirci che non è stato solo un grande comico, Alberto Sordi, ma un grande attore e basta, con quel secondo tempo così cupo e drammatico.

E sempre a Roma, nelle sue piazze, nelle sue vie, nelle vene di questa città, Alberto incontrò per la prima volta il cinema. Era il 1937, aveva diciassette anni e aspettava a Piazza Tuscolo – tra San Giovanni e Re di Roma – i camion che portavano le comparse a Cinecittà.

Il film era Scipione l’africano, buono perché nella capitale c’era poco lavoro, allora, e il cinema dava una mano quando c’erano kolossal, ma lui lo faceva più per imparare che per soldi. A Cinecittà sarebbe tornato molto tempo dopo, da protagonista in Una vita difficile, nel 1961, quando, nei panni dello straordinario Silvio Magnozzi, uno dei suoi personaggi migliori, prova a consegnare il suo romanzo al regista Blasetti.

E a Cinecitta torna anche in taxi, negli anni ottanta, nel film Il tassinaro, per omaggiare con affetto il suo amico di sempre: Federico Fellini. Ce lo accompagna travestito da romano qualunque, da uno del popolo, uno dei tanti che ha interpretato nei suoi quasi 190 film, anche se poi, in quella tenera sequenza in auto, il confine tra attore e personaggio diventa sottilissimo, e i due amici scherzano sul loro antico legame. Insieme se ne erano andati in giro tanto tempo prima, spesso di sera, sempre squattrinati, per quella città che entrambi amavano.

alberto-sordi-nel-film-un-americano-a-roma-foto-lapresseSordi e Fellini andavano a mangiare in una trattoria in via Frattina, dove la cameriera, forse innamorata di uno dei due, metteva una bistecca sotto il piatto di pasta. E parlavano, sognavano, ricorda Sordi in uno straordinario repertorio Rai, nel cuore di quella città in cui continuò a vivere per sempre. La sua seconda casa stava in Via de’ Pettinari, a due passi da ponte Sisto. Ci andò a stare con la mamma, le sorelle e il fratello dopo la morte del papà.

Come vicino aveva un bambino di nome Carlo Verdone, che tirava i sassolini alla finestra per vedere Alberto, e col tempo sarebbe diventato per lui quasi un figlio adottivo. La terza casa romana, la più bella, affacciata su Caracalla e tutta immersa nel verde, grande, con il teatro dentro, con una piscina che Sordi non usava mai e una stupenda barberia che invece usava sempre, sta in Via Druso, all’incrocio con Piazzale Numa Pompilio.

Oggi è un museo e Alberto vi trascorse quasi mezzo secolo del suo privato tranquillo, semplice, riservato, sopratutto dopo il 1972, quando morì una delle sorelle, Savina. Amava riceverci gli amici e riposare dopo il lavoro, la domenica, per esempio, col calore dei familiari e magari quel relax pomeridiano a cui non rinunciò nemmeno quando venne eletto sindaco per un giorno. Era il 15 giugno del 2000, per i suoi ottant’anni. C’era Rutelli e il Campidoglio – dove Sordi girò anche la sequenza di Una vita difficile, quella dell’attentato a Togliatti -, si fermò gioioso ad omaggiare Alberto Sordi.

Lui indossò la fascia e fu una mattinata di festa, poi dopo quattro ore disse che era stanco e andò a riposare. Quando tre anni piu tardi, il 24 febbraio del 2003, lasciò per sempre questa terra, fu di nuovo il Campidoglio ad accogliere la camera ardente e una fila infinita di persone che andavano a salutarlo. Gente di ogni tipo, che non si conosceva, ma che mentre avanzava lentamente, commossa, ricordava battute e personaggi di questo immenso attore.

L’ultimo saluto, invece, ha legato per sempre un altro luogo di Roma ad Albertone: Piazza San Giovanni, gremita, in quell’occasione, da oltre 250 mila persone con gli occhi lucidi. Parlarono molte autorità, mentre un aereo volava in cielo sventolando uno striscione: “Stavolta c’hai fatto piagne“.

Poi Gigi Proietti regalò ad Alberto questo sonetto: «Io so’ sicuro che nun sei arivato ancora da San Pietro in ginocchione/ A mezza strada te sarai fermato/ A guarda’ sta fiumana de persone/ Te renni conto si c’hai combinato?/ Questo e’ amore, sincero; è commozione; e rimprovero perché te ne sei annato/ Rispetto vero: tutto pe’ Albertone…/ Starai dicenno: ‘ma che state a fa’? Ve vedo tutti tristi, ner dolore’./ E c’hai raggione! Tutta la citta’ sbrilluccica de lacrime e ricordi/ E tu nun sei sortanto un granne attore… Tu sei tanto de più: sei Alberto Sordi».

 

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