Alberto Michelotti e Carlo Grisolia: un’amicizia nel divino
Alberto Michelotti (1958) e Carlo Grisolia (1960) sono due giovani di Genova. Caratteri e mondi per alcuni aspetti differenti; li accomuna un’amicizia e la vocazione universale di farsi santi insieme della spiritualità di Chiara Lubich. “E se fra un po’ io non ci fossi più – scrive Carlo ad Alberto – , tu sentiresti come diventa importante che in quest’istante ci sia anch’io perché è proprio il dolore che ci fa sentire più vicini”. Muoiono nel 1980: Alberto durante una gita in montagna, in un canalone, Carlo per un tumore che lo porterà via nello stretto giro di 40 giorni.
Due amici e un unico processo di beatificazione, aperto negli anni in cui il card. Tarcisio Bertone era alla guida dell’arcivescovado di Genova. Caso eccezionale nella storia della Chiesa. Era accaduto a due fratelli, Cirillo e Metodio, alla coppia di sposi Maria e Luigi e Beltrame Quattrocchi, beatificati da Giovanni Paolo II, ma a due amici mai. Alla GMG di Colonia del 2005 – durante la catechesi del 17 agosto, dal titolo Ricercare la verità, senso profondo dell’esistenza umana –, il card. Bertone citava la loro esperienza: “Due ragazzi genovesi che hanno coltivato una splendida amicizia, aperta e alimentata da un obiettivo comune: portare a tutti il dono dell’ideale evangelico, che li aveva affascinati. Carlo Grisolia e Alberto Michelotti hanno vissuto una storia di amicizia fra di loro e con i loro coetanei, in vista della santità. Facevano parte dei Gen (Generazione Nuova, emanazione del Movimento dei Focolari). Il Movimento si caratterizza per la sua composizione in gruppi più o meno numerosi: le ‘unità gen’, fondate sulla fraternità evangelica, sinonimo di una sana amicizia; su una convergenza di ideali e di progetti, su una ‘comunione’ intesa come apertura alla presenza di Gesù in mezzo, secondo la promessa evangelica: ‘Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo ad essi’ (Mt 18, 20)”.
Alberto Michelotti
“Sono nato e cresciuto in una famiglia dove non è mai mancato il necessario; anche coi genitori non sono mai nati grossi problemi. A 13 anni non avevo amici, ero un ragazzo solo, tutto casa e scuola”. Così, con poche righe essenziali, Alberto descrive la sua infanzia. Nato e vissuto con la sua famiglia alle porte di Genova, nella frazione di Staglieno che si allunga sulla Val Bisagno, frequenta con i suoi genitori la parrocchia di San Sebastiano nella vicina frazione di Preli. Vita nella parrocchia e un iniziale coinvolgimento nell’Azione Cattolica dei ragazzi: “Per anni sono delegato A.C.R. [Azione Cattolica Ragazzi] e nel contatto con la freschezza dei bambini salvo la mia costanza nell’andare in chiesa”, ma “dopo due anni don Mario, il mio parroco, comincia a parlarmi di un altro Ideale: di Gesù tra noi, di Dio che mi ama personalmente”. Il parroco in questione è Mario Terrile che gli fa conoscere la spiritualità di comunione di Chiara Lubich.
Frequenta il Liceo classico G. Cassini di Genova dal 1972 al 1977 e Massimo Ciampoli, suo compagno di scuola in quegli anni, così lo ricorda: “Di quei primi anni non ricordo molto di Alberto, ma col passare del tempo però ha iniziato a distinguersi dal ‘branco’. Era diventato il primo della classe. Ma un primo della classe ‘umano’, che aiutava gli altri con umiltà e semplicità”. Conosce Orietta, e con lei inizia un rapporto basato sul nuovo stile evangelico ed insieme affrontano questa nuova avventura. “Gesù, nei tre giorni di Bergamo – scrive nella lettera al congresso gen alla fine del 1978 –, mi ha chiamato alla Sua maniera; cioè senza riserve… È bello quando ti accorgi di dover cambiar pagina su tante cose; soprattutto in casa, a scuola, con la ragazza, con gli amici, non sei tu Alberto, ma è Gesù; cioè o doni del divino oppure è meglio che lasci tutto”.
Si butta a capofitto con i suoi amici nell’operazione “Morire per la propria gente”, proposta ad un congresso gen del 1978 da Chiara Lubich. Il titolo riprendeva la frase di un sacerdote cambogiano: “Vado a morire per la mia gente”, le aveva detto poco prima di tornare nella sua terra martoriata dalla persecuzione. “Un giorno entro a Stella Maris, un vecchio locale vicino al porto – scrive sempre Alberto nel 1978 –, ritrovo i marinai di colore, sbandati; non hanno nulla da mangiare, da vestire. Lì da alcuni mesi i Gen stanno aiutando un sacerdote solo in questa situazione disperata.
Appena entro, l’odore di quelle stanze è per me una fucilata. Il primo istinto è quello di scappare; non posso credere che così vicino, nella mia città, possano esistere situazioni come questa. Un ragazzo del Ghana mi domanda qualcosa; non conosco la lingua. Insieme ci mettiamo a cercare un paio di pantaloni che gli vadano bene. A sera torno a casa: forse è la prima volta che sono felice. Ora so da dove arriva questa gioia”.
Frequenta la facoltà di ingegneria. Brillante e trascinatore com’è, diventa un punto di riferimento per gli amici del muretto, per quelli della frazione e anche dei gen. Nel settembre 1979 Alberto diventa responsabile di un gruppo gen della Valbisagno. Tra loro ci sono Carlo e Paolo Grisolia.
Carlo Grisolia
Carlo ha due anni meno di Alberto, classe 1960, e una famiglia che conosce già il Movimento dei Focolari e la sua spiritualità. È un ragazzo più introverso rispetto ad Alberto. Sensibile, poetico e sognatore, con la chitarra sempre in mano, pronto ad animare il suo gruppo di amici con un nuovo giro di accordi. La famiglia Grisolia – Carlo è il terzo di cinque fratelli –, vive nel paesino di Canova lungo la Valbisagno. Nato a Bologna, Carlo cresce tra Genova, Bosco Marengo in provincia di Alessandra, per poi far ritorno a Genova. “Durante i cinque anni di elementare, fuori della scuola la mia vita non è cambiata – scrive negli appunti ritrovati –; giocare, scorazzare lungo i campi e i prati, d’inverno giocare con le palle di neve e lo slittino e coi miei fratelli l’affetto più sincero. La voglia di studiare non mi mancava, amici ne avevo quanti volevo e avevo quella fede in Dio, pura e infantile, com’è normale nei ragazzi di quella età. Ma il momento in cui ho capito che in fondo ero qualcuno è stata la mia Prima Comunione”.
Appunti, poesie e canzoni testimoniano il suo percorso spirituale, i suoi dubbi e il suo credo, specie nei 40 giorni di ospedale. Come accade ad Alberto, anche per Carlo la conoscenza di un sacerdote –Vito Chiesa, parroco di Canova nel 1977 –, è il momento di svolta per un cambiamento importante. In quell’anno comprende che deve impegnarsi per concretizzare idee e speranze. Frequenta l’Istituto agrario: viene prima eletto nel consiglio di classe , poi nel consiglio di istituto e infine in quello di distretto. In un biglietto indirizzato a suo cugino Lucio scrive: “Io non sono capace di niente. Se penso a me stesso, così egoista, così timido, svogliato… Sento che non riuscirei neanche a muovere un passo. Ma la vita può cambiare, possiamo amare… Quando ti sentirai in difficoltà , quando non riuscirai a sorridere, buttati ad amare, amare, amare”. Si impegna in parrocchia e inizia ad incontrarsi con un gruppo di gen che si era costituito dal 1973. E lì che conosce Alberto. Tre anni di amicizia: bella, intensa e radicale.
1980
È il 1980. L’ultimo scatto, ma uniti. Un anno difficile di inattese difficoltà sia per Alberto che per Carlo in partenza per il militare. È nella marina, non ha un feeling particolare con l’acqua ed ha paura di essere imbarcato. Il 17 maggio allo stadio Flaminio di Roma, intanto, si svolge il Genfest (manifestazione dei giovani dei Focolari). Alberto è in prima linea nell’organizzazione, ma anche Carlo cerca di farsi presente con dei bigliettini per assicurare le sue preghiere agli altri.
Dall’ultima lettera di Alberto a Carlo: “Ciao Carlo, sono in questa splendida chiesa di S. Siro. Sono solo e sul tetto di legno sento picchiare dolce la pioggia. È un momento tutto particolare, bellissimo. Quasi non vorrei andarmene più. Sono passato di qui per mettergli nel Suo Cuore tutte le infinite cose che io non so fare, che magari rovino soltanto. Tra le tante, in questi giorni ci sei tu, la Cinzia. Quasi sento nella mia carne, nel mio cuore tutto il momento delicato che stai attraversando, che sto attraversando. In questo silenzio così bello mi sta rispondendo che non ci possiamo fermare, amare, amare tutti, spaccarci il cuore per fare uscire il vero amore, quello nato dal dolore”. Si sarebbero visti altre volte, ma nessuno ricorda il loro ultimo incontro.
Le vette, Alberto, le amava molto e aveva deciso di trascorrere le vacanze di quell’estate del 1980 in due campeggi in Val d’Aosta. È il 18 agosto, alle 4 e mezza di mattina Alberto è pronto a partire con Tiziano per la più bella delle scalate delle Alpi Marittime: il massiccio dell’Argentera, attraverso il canalone della Lourosa. Durante la scalata, però, il ghiaccio si fa più fragile e Alberto e Tiziano si fanno più prudenti. La cima è lì a cinquanta metri, sotto un dislivello di 1300 metri. Proseguendo, improvvisamente Alberto perde l’appoggio con i ramponi e sotto gli occhi del suo amico scivola per 400 metri. Nonostante Tiziano riprenda dall’altro versante la cima per raggiunge il rifugio e per dare l’allarme, non c’è nulla da fare.
In tanti accorrono alle Terme di Valdieri per il loro saluto ad Alberto. Appena la sera precedente, prima di andare a dormire, avevano letto insieme un brano tratto dal libro Meditazioni di Chiara Lubich, dal titolo L’esame finale: “Se uno studente sapesse in anticipo le domande del suo esame, certamente si preparerebbe le risposte… Noi sappiamo le domande dell’Esame Finale: ‘Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere…’ Per tutti l’esame finale sarà solo sull’Amore! Con la buona notte chiediamo insieme a Dio il tempo bello per il giorno dopo”, ricorda Tiziano.
Tra coloro che partecipano al funerale, però, non c’è l’amico più stretto: Carlo. Il 16 era rientrato dal militare per degli accertamenti dopo una serie di svenimenti e di paralisi agli arti. In poche ore e, dopo il consulto di un medico che non nasconde la gravità della situazione, Carlo viene ricoverato. Si tratta di neoplasia. Gli raccontano della morte dell’amico, ma il tempo è poco e bisogna correre all’ospedale. Saranno questi i 40 giorni che separano i due amici da quell’ultimo, ma intenso viaggio verso Colui che avevano incontrato in ogni fratello.
Il 19 agosto 1980 Carlo viene ricoverato d’urgenza a Galliera, seguendo spiritualmente il funerale dell’amico. In quel letto d’ospedale si fa portare la chitarra per ravvivare con un po’ di musica il reparto, dove ci sono tante persone anziane, ma la situazione precipita. Un’emorragia polmonare e Carlo viene ricoverato nella struttura più attrezzata di Sampierdarena. Dopo una prima operazione riuscita, una nuova emorragia e la consapevolezza per tutti che possono essere le ultime ore di vita del giovane. Verso sera alla mamma viene concesso di entrare nella stanza. Carlo la accoglie con queste parole: “Mamma, è giunto il momento del tuffo in Dio”.
In poco più di mese e mezzo di malattia Carlo è cambiato: ora è un testimone saldo nella fede. Amici, medici, infermieri e familiari che lo assistono nella stanzetta, sostando nei corridoi e animando il giardinetto sotto l’ospedale, lo vedono cambiato. Il giorno seguente si registra un miglioramento e viene trasferito in chirurgia, dove tanti si alternano a fargli visita. Chiara Lubich annota nel suo diario: “Carlo, il gen di Genova prossimo alla morte… mi manda questo biglietto: ‘Come te vivo per incontrarlo’, e si firma Vir (uomo), il nome che gli ho dato 10 anni fa… Chi è andato a trovarlo… dice che quando Carlo è entrato in ospedale era semplicemente un ragazzo di vent’anni; ora parla ed agisce con la forza di un patriarca”.
Un mese e mezzo in cui Carlo confida ad un’infermiera: “So dove vado. Vado a raggiungere un mio amico che è partito pochi giorni fa in un incidente di montagna” e racconta poi ai genitori di Alberto: “Lo sento accanto a me, è sempre qui con me”.
Muore il 29 settembre. Mille e più persone al suo funerale. Alcuni mesi addietro Chiara Lubich aveva detto ai giovani dei Focolari: “Vi auguro di farvi santi, grandi santi, presto santi. Sono sicura di darvi in mano la felicità”. Carlo e Alberto, nel vivere per Gesù e per incontrarlo in ogni fratello, quella felicità l’hanno trovata. Nella lettera ai familiari per l’apertura del processo diocesano il card. Bertone ha scritto: “Gioisco in particolare nel vedere che l’esame canonico procede insieme, così come insieme hanno speso la loro giovinezza, con esemplare generosità”.