Albertini, managerialità a Palazzo Marino

“Se a Milano non corri pure tu chiamano l’ambulanza”, ha commentato a metà giugno sul Corriere della Sera quell’osservatore di Geminello Alvi. Luogo comune o tratto irrinunciabile dei cittadini? Un grido si è alzato dallo stilista Giorgio Armani: “Milano è il luogo ideale sotto il profilo professionale, ma offre poco o nulla oltre al lavoro. Il centro storico sta morendo, solo perché non lo si vuol far vivere”. Ma nel giugno dei Mondiali di calcio la città è contagiata dalla febbre pedatoria. Tanta gente si ritrova davanti al grande schermo in piazza Duomo a tifare Italia. Un sole dardeggiante non scoraggia nessuno. E vengono irrimediabilmente attratti impiegati e dirigenti in pausa pranzo, che allentano il nodo della cravatta e i modi compassati. Nel vicino Palazzo Marino, sede dell’amministrazione cittadina, il sindaco non si è concesso invece molte pause calcistiche. Un anno dopo il suo secondo mandato, Gabriele Albertini è attento a far girare al meglio la macchina comunale. Sostenuto dal centrodestra quale candidato di Forza Italia (anche se non vi è iscritto), ha tuttavia imposto, in fase di rielezione, nomi di sua fiducia nella squadra di governo, bocciando quelli caldeggiati dalle segreterie dei partiti. Finite le ideologie e liquidata una lunga e travagliata stagione politica locale (la città non ha ancora un depuratore, i suoi scarichi arrivano in Adriatico), la maggioranza dei milanesi, dopo l’esperienza del leghista Marco Formentini, si è affidata ad un uomo definito “pragmatico”, studi dai gesuiti, scommettendo sulle sue capacità di saper esprimere la cultura della managerialità nella gestione della capitale economica del paese. Alla fine del 2002, Milano sarà completamente cablata con le fibre ottiche più all’avanguardia nel mondo. Ad un anno dalla seconda elezione a sindaco, cosa prevale nel suo approccio alla città: la voglia di innovare o la consapevolezza degli ostacoli? “Partiamo dal motto di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”. La base di qualsiasi decisione è la consapevolezza dei problemi. Da come li si affronta si può giudicare se un comportamento è innovativo. Credo che il merito di essere stato considerato, per talune proposte o per il tipo di approccio alla politica, una presenza “nuova”, debba essere esteso anche a tutta la parte che oggi governa Milano. È il riflesso del carattere di una città che innovatrice lo è per tradizione e che, dopo anni di appannamento, finalmente torna a ricoprire il ruolo che le spetta”. Sono stati più difficili i primi dodici mesi del primo mandato o quelli del secondo? “Si è trattato di difficoltà diverse. Il primo periodo è stato faticoso dal punto di vista psicologico perché, provenendo dal mondo imprenditoriale, non avevo esperienza di amministrazione della cosa pubblica. All’inizio del secondo mandato, invece, c’era la coscienza di dover realizzare gli interventi – per la verità ancora tanti – che non avevano trovato attuazione. Bisogna lavorare da subito con impegno. Un esempio importante, i depuratori: in pochi mesi abbiamo fatto quello che non si era risolto in trent’anni. Oggi i cantieri sono avviati e tra un anno avremo il primo metro cubo di acqua depurata della storia di Milano”. Diventare sindaco. Chi gliel’ha fatto fare, dottor Albertini, lei che era già alla guida dell’azienda paterna e aveva ricoperto importanti incarichi in Confindustria? “Negli anni Ottanta chiesero a un celebre intellettuale di candidarsi per un partito politico, ma costui rispose: “Grazie, sono già ricco di famiglia”. La battuta fece il giro d’Italia. Mi sembra esemplare di un certo modo cinico di concepire lo scopo dell’attività politica, assai diffuso in passato. Credo che questa idea sia ormai scomparsa anche dall’opinione generale. Al contrario, mi sembra sia molto apprezzato dai cittadini che a cimentarsi nell’amministrazione della cosa pubblica siano coloro che hanno saputo ben operare nella sfera delle professioni, dell’imprenditoria, del volontariato. “Quanto a me, ho sempre considerato l’impegno in favore della collettività un’idea degna del massimo rispetto. Una motivazione personale che ha trovato le condizioni propizie per concretizzarsi solo in un certo momento, quando la città, dopo anni di delusioni, tornava a interrogarsi sul significato autentico della politica”. Quali le ragioni che l’hanno portata invece a decidere di candidarsi per il secondo mandato? “Quattro anni non bastano per realizzare progetti di largo respiro in una metropoli complessa. Questo si sa. Ma la mia decisione è stata favorita dal risultato positivo ottenuto nel questionario sottoposto ai cittadini pochi mesi prima del termine del mandato. Chiedevamo un giudizio sull’operato dell’amministrazione nel periodo 1997-2001. La città ci dava fiducia, ci esortava a proseguire il lavoro intrapreso. Questo ci ha dato la determinazione per continuare”. Alla luce della storia e delle caratteristiche di Milano, qual è oggi, secondo lei, la vocazione della città? “La vocazione di Milano è quella di sempre, perché non si prescinde dalla propria storia. L’impresa, l’impegno sociale, la cultura, la valenza internazionale. Semmai possiamo dire che le grandi tradizioni ambrosiane hanno ripreso slancio. Credo che abbia molto contribuito la testimonianza di una personalità come il cardinale Martini, la sua capacità di risvegliare quel senso dell’appartenenza che sembrava perduto. Assistiamo ad una crescente volontà di collaborare: le imprese con le università, il volontariato con l’amministrazione, il pubblico con il privato. Da questa vicinanza nascono le idee e si trovano le risorse morali e materiali per realizzarle”. Ci sono già risultati? “Avere cablato la città, ad esempio, recependo e anche anticipando le istanze delle nuove imprese, è il segno che lo scenario è cambiato. È un segnale importante della ritrovata sintonia tra la società e chi ha la responsabilità di governare”. Permangono alcuni gravi problemi come l’inquinamento atmosferico e il traffico: crede davvero in soluzioni efficaci? “Credo in soluzioni efficaci, non in una panacea che risolva tutti i mali. Puntiamo sul potenziamento del trasporto pubblico e sulla qualità del servizio. Vorrei far capire che non si tratta di provvedimenti isolati, ma che tutte le opere pianificate, alcune delle quali già in fase di attuazione, costituiscono tessere di un unico grande mosaico: i parcheggi, la regolamentazione della sosta, la metropolitana, i collegamenti con il sistema ferroviario, la viabilità, il controllo attraverso le telecamere. Sono interventi – penso, penso, ad esempio, al prolungamento delle linee della metropolitana e alla costruzione di nuove tratte – che necessitano di risorse cospicue e, data l’emergenza, di iter burocratici semplificati”. Quali sono per lei gli altri grandi problemi della città? “Credo che l’altra grande sfida sia quella dei problemi sociali, del disagio, dell’emarginazione, dell’inserimento di coloro che vengono da altri paesi cercando una prospettiva di vita migliore. Un tema, quest’ultimo, strettamente legato a quello della sicurezza e del lavoro”. In base a quali idee guida li sta affrontando? “C’è l’impegno diretto – ricordo che la spesa pro capite dei servizi sociali è la più alta d’Italia – e c’è l’intesa con le associazioni di volontariato che ha consentito di ottenere a Milano la sede dell’Authority nazionale. È un riconoscimento dovuto, ma vorrei richiamare la lunga battaglia condotta dal comune. La sussidiarietà a Milano non è solo un indirizzo, ma una realtà. Le convenzioni con il terzo settore rappresentano una fetta importante del bilancio comunale, un bilancio che non ha subito contraccolpi, neppure dopo i tagli imposti dalla nuova finanziaria”. E in tema di sicurezza? “Per quanto riguarda la criminalità, l’amministrazione si è fatta promotrice di una maggiore collaborazione tra istituzioni e forze dell’ordine, collaborazione che c’è stata, e non è un caso se oggi la sicurezza non è più al primo posto tra le preoccupazioni dei milanesi. È stato potenziato il corpo della polizia municipale – oggi ci sono 1.000 vigili in più – e Milano, prima città in Italia, ha istituito il vigile di quartiere. Oggi chiediamo che i bandi di assunzione prevedano gli stessi requisiti fisici e attitudinali richiesti per le forze di polizia. Poi ci sono le telecamere installate nei luoghi più pericolosi, come i parchi e la stazione Centrale”. Ma bastano interventi di ordine pubblico? “No. Per sciogliere le tensioni sociali bisogna affrontare anche il nodo del lavoro. E lo abbiamo fatto. Cito solo il Patto di Milano, a cui aveva collaborato il professor Marco Biagi, e l’ultimo accordo per l’occupazione che ha visto insieme istituzioni, imprese, sindacati, compresa la Cgil. E un’attenzione infine alla vivibilità: l’esempio più importante è quello del recupero delle periferie. Su 6,5 milioni metri quadrati di aree dismesse, più di 5 milioni sono già in fase di riqualificazione, con investimenti attivati per 5.000 miliardi (di vecchie lire, ndr) tra pubblici e privati. Il recupero delle periferie, con una destinazione multifunzionale, ricrea un contesto urbano e vivibile laddove la città non è mai esistita. Alla Bicocca oggi ci sono gli studenti del nuovo ateneo, c’è il teatro degli Arcimboldi, che ha amplificato il ruolo della Scala. E con la cultura, con i servizi che rendono questi quartieri più autonomi, rinasce l’amore per la città”. Come intende valorizzare le potenzialità di Milano? “La qualità di una metropoli che vuole essere internazionale è la sua capacità di attrarre, più delle altre, risorse, capitali, attenzione. Ecco allora gli interventi per elevare la qualità della vita: la manutenzione delle strade, il verde – cito, perché è recente, l’inaugurazione del Parco delle Cave -, le isole ambientali, il restauro dei monumenti – il Castello Sforzesco, il Palazzo Reale, la Scala -, le grandi mostre. A questo si aggiungono i progetti di respiro internazionale, come la Beic, la biblioteca multimediale europea, e il museo del Novecento. Ma non ci sono solo operazioni eccezionali come queste”. A cosa allude? “Anche agli interventi mirati al recupero degli sprechi: oggi tutte le aziende municipalizzate hanno bilanci in pareggio o in attivo. Non succedeva dal dopoguerra. E la pressione fiscale di Milano è tra le più basse a livellonazionale. L’introduzione di criteri di managerialità non è un mero fine economico. La ragione economica si integra in una ragione più estesa, che ha sempre come punto di riferimento i cittadini, i loro bisogni, le loro istanze”. Cosa è stato per lei l’incidente del Pirellone e cosa ha significato, a distanza di tempo, per i milanesi? “È stata una tragedia per tutta la città, l’offesa a uno dei suoi monumenti più significativi: al simbolo degli anni del boom economico, che è uno dei momenti più gloriosi del “mito” di Milano. Tutto questo è ovvio. Ma pensiamo alla prontezza con cui sono intervenuti i soccorritori, alla loro straordinaria efficienza. Pensiamo alle persone comuni che hanno trasportato lungo le scale di emergenza per ventiquattro piani una ragazza disabile, alla città che si stringe attorno alle sue vittime. E poi, nel giro di pochi giorni: gli uffici della Regione che riprendono a funzionare, si dà il via ai lavori per la ricostruzione. Questa è Milano, e non finisce mai di stupire”. C’è stato un episodio, in questi anni a Palazzo Marino, che le ha procurato particolare soddisfazione? “Ho avuto tante soddisfazioni ma, più che al passato, preferisco pensare a quello che verrà. Presto il cardinale Martini ci onorerà della sua presenza in consiglio comunale. Vorremmo che il legame che egli è riuscito a creare tra le coscienze, senza distinzioni di appartenenza culturale o politica, potesse riflettersi nel legame – civile, laico – che deve unire i cittadini. Ora che il cardinale si accomiata da Milano, penso al momento simbolico in cui la città si stringerà a colui che, religioso, ha saputo parlare al suo cuore laico. Credo sia significativo che questo abbraccio avvenga proprio nel “tempio civile” di Milano, nel luogo in cui si celebra il rito della partecipazione democratica alle scelte importanti della nostra comunità”.

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