Albania casa mia, storia vera e di coraggio
Diverte e commuove. Per leggerezza e profondità. Scuote ma senza violenza. Porge la sua storia senza imporla. Ci rende partecipi per quel bisogno che tutti abbiamo di condivisione. Vuole che siano le parole a volare, e incontrare orecchie e occhi attenti, lasciando poi alla nostra immaginazione dare loro consistenza e ricostruire volti, luoghi, suoni, eventi. E, forse, rendere catartico quest’incontro.
Nel teatro di narrazione, si sa, basta il solo corpo in scena e una storia da raccontare. Ma ci sono storie e storie. Se è quella intima della propria vita, non servirà altro che usare quei pochi e indispensabili mezzi – voce, toni, gesti, sguardi – che un attore sa praticare e dosare con la maturità del mestiere. E le capacità espressive, oltre ad un’abile e sensibile scrittura, le possiede tutte il giovane 29enne Aleksandros Memetaj, per tenere avvinti – grazie anche alla regia asciutta di Giampiero Rappa che lo colloca sul semplice disegno a terra della mappa dell’Albania – gli spettatori, in quei 60 minuti in cui, senza altri appigli scenici – né musica, né luci a effetto, né oggetti –, fa memoria delle vicende di sé e della sua famiglia innestate nella storia più grande di un’epoca ben precisa e di un popolo: quello albanese. Dopo la fine del regime comunista di Enver Hoxha durato oltre 45 anni, dopo la caduta del Muro di Berlino, e dopo lo sblocco dei confini dell’allora presidente Ramiz Alia, si assistette a una fuga in massa di persone verso l’Occidente in cerca di una vita migliore.
È suo il monologo Albania casa mia (scritto nel 2016), che Memetaj recita – più giusto dire “vive” o “rivive” – senza cadere nella trappola della retorica di un testo di denuncia sociale, o del facile patetismo. Costantemente sospeso tra due Paesi e due culture, attingendo al suo vissuto, alla ferita che porta dentro, al riscatto di chi, senza enfasi né rumore, ha conquistato un suo posto e una sua identità, farà emergere una storia universale dove, a prevalere nel racconto autobiografico, è il rapporto tra padre e figlio. Il suo, un ingegnere fisico, allora trentenne, è un capofamiglia ostinato che per cercare di garantire un futuro alla moglie e al bambino appena nato, compie quel viaggio disperato sul grande peschereccio “Miredita” che salpò da Valona nel febbraio del 1991 stipato all’inverosimile di persone che scappavano verso l’Italia. Altri subito ne seguirono su navi, pescherecci e gommoni, partendo dai porti di Valona e Durazzo. È storia a noi nota per le prime incancellabili immagini di quel “sovraccarico umano” all’arrivo nel porto di Brindisi.
Nella prima parte del monologo Memetaj, con toni lievi e spensierati (imita i veneti e gli albanesi), inconsapevole della drammatica odissea compiuta dai suoi genitori fuggiti per la seconda volta dall’Albania, rivela, con ironia e fatti reali, la sua difficile infanzia da straniero in un minuscolo paese del Veneto, in cerca di un proprio posto nel mondo. Nella seconda si carica del doloroso fardello del padre Alexander Toto, dei sacrifici e dei pericoli da lui corsi, descrivendo il suo penoso distacco dalla famiglia, la spaventosa traversata e lo sbarco a Brindisi. Da qui la fuga in treno fino a quel piccolo paese della provincia veneta, che lo accoglie a suo modo, tra accettazione e rifiuto, e dove, mettendo da parte l’orgoglio e una laurea in ingegneria, impara a lavorare facendo la pizza. Beccato con i documenti falsi, viene rimpatriato. Ma lui è tenace, e dopo poco s’imbarca nuovamente su un peschereccio, speranzoso che tutto andrà a buon fine. Stavolta è lui, la moglie e quel bimbo in fasce di appena 6 mesi, Aleksandros, scottante di febbre. In quest’ultima sequenza Memetaj rende plastico e toccante il racconto togliendosi la giacca e trasformandola in un fagottino tenuto in braccio. È il padre che stringe il bimbo, e intanto descrive il salto finale dal muro di 4 metri del porto, di quei 3 esseri umani, tenendo in mano il neonato, minacciati dalle pistole di alcuni poliziotti. «Quel salto dal muro – scrive nelle note di regia Giampiero Rappa – è un invito a non abbattersi e a non avere paura di ricominciare da capo, anche quando tutto sembra essere perduto».
Albania casa mia è andato in scena, con successo e grande partecipazione, pur distanziata, di pubblico, alla LXXIV Festa del Teatro, l’annuale rassegna della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, che coraggiosamente, pur dovendo cancellare il tradizionale debutto di un nuovo spettacolo per le misure restrittive riguardanti la pandemia, ha voluto mantenere vivo il contatto diretto con il pubblico allestendo un cartellone di monologhi rappresentati nella suggestiva piazza del Duomo. Il programma sul sito http://www.drammapopolare.it/art_eventi.jsp?id=279