Alabama, il terremoto repubblicano

Afro-americani, donne e millennial hanno sancito la vittoria dopo 20 anni di un candidato democratico alla guida dello Stato che si è schierato contro il suo presidente

 

Doug Jones, avvocato, democratico è il nuovo senatore dell’Alabama, lo Stato più repubblicano degli Stati Uniti e che per 20 anni ne è stata la roccaforte inespugnabile. E invece martedì scorso questo Stato del Sud ha scritto ancora una volta una pagina nella storia degli Usa, ripudiando Roy S. Moore, il candidato appoggiato da Donald Trump e che tanto scalpore aveva suscitato per le accuse di relazioni con minorenni durante tutta la campagna e per la sua indiscussa vicinanza ai principi del Ku Klux Klan, un’organizzazione segreta e di chiaro stampo razzista. E così, mentre Jones è stato uno degli avvocati che è riuscito a far condannare due esponenti di questo gruppo, che nel 1963 avevano piazzato una bomba nella chiesa battista di Birmingham uccidendo 4 bambine, il suo avversario Moore aveva pubblicamente dichiarato che «l’Alabama era grande nei giorni della schiavitù». Due visioni del mondo agli antipodi che hanno fino alla fine diviso gli elettori, ma che hanno premiato, dopo 20 anni di indiscusso dominio repubblicano, un senatore democratico che andrà a sostituire in Senato il posto occupato da Jeff Session, ora procuratore generale.

Alabama Senate

L’Alabama è diventano terreno del contendere non solo tra i due partiti, ma anche all’interno degli stessi repubblicani che in gran numero avevano sconfessato la scelta di Moore in contrasto con il loro stesso presidente e in aperta opposizione al suo consigliere strategico Steve Bannon che lo aveva convinto ad appoggiare un candidato estremista, oggi rivelatosi un boomerang per l’amministrazione. Neppure il giochetto di far intervenire la commissione etica ad elezione avvenuta per costringere Moore alle dimissioni, soprattutto a seguito delle sue relazioni con teenager, ha funzionato: i repubblicani infatti si sarebbero accaparrati il posto in Senato per garantirsi la maggioranza e poi avrebbero sostituito lo scomodo eletto con un altro più rappresentativo del partito.

Alabama Senate Race

E invece la sconfitta è stata memorabile non tanto per la distanza di voti dal vincitore (circa 21 mila) ma perché in Alabama si è inaugurata la marcia del declino di una visione del Paese e di un governo che vuole portare indietro l’orologio della storia anche nella patria dei diritti civili: quella che nel 1955 ha visto Rosa Parks non cedere il posto sull’autobus a un bianco e quella che ha marciato pacificamente da Selma a Montgomery sotto le cariche della polizia per ottenere nel 1965 il riconoscimento del voto e la fine della segregazione razziale. Anche nelle elezioni di martedì 12 dicembre 2017 la differenza l’hanno fatta gli afro-americani che in massa sono andati a votare per Jones, soprattutto le donne (il 98%) e i millennial: neppure nell’era di Obama si era assistito a una tale partecipazione al voto. I bianchi per il 57% hanno sostenuto Moore. Ma di fronte al taglio dei programmi di aiuto per i poveri, dell’assistenza sanitaria e della mancata riforma della giustizia gran parte della gente del Sud ha detto “no” e nessuno slogan di presunta grandezza gli ha fatto cambiare idea.

In Alabama la “Grande America” di Trump subisce una battuta d’arresto nonostante nelle elezioni del 2016 lo avesse premiato con il 60% dei consensi. A fare i conti con la realtà è anche il partito repubblicano sempre più diviso al suo interno tra chi cerca di resistere all’uragano Trump e tra chi vi è finito nelle spire: per molti analisti il segnale di questo Stato conservatore che ha ripudiato il suo presidente fa presagire una débâcle catastrofica per il partito nelle elezioni del 2018, ma fa intravvedere un ritorno alla partecipazione civile attiva ed è grazie a quella che i supporter di Jones, bussando a 520 mila porte, hanno ottenuto la vittoria e hanno riportato l’Alabama nella storia di oggi.

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