Al voto in cerca di futuro

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Per carità, manteniamo il senso delle proporzioni. Ma adesso anche l’Italia – nel suo piccolo – può vantare un proprio Super Martedì. Non ha investito 21 Stati, come quello che si è svolto in contemporanea, il 5 febbraio scorso, negli Stati Uniti per le elezioni presidenziali, ma è stato sufficiente a segnare la chiusura anticipata della legislatura. Certo, non è stato un giorno super per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, né per l’esploratore Franco Marini – chiamato a ricercare un’improbabile convergenza sulla riforma elettorale – e per quanti speravano di giungere all’inevitabile voto con nuove e condivise regole del gioco. Quel giorno era martedì grasso, ma la decisione del ricorso alle urne era tutt’altro che uno scherzo di Carnevale. Né suonava goliardica la casuale coincidenza dello scioglimento delle Camere nel mercoledì delle Ceneri. La quaresima, per molte famiglie italiane in precarietà economica e sociale, è purtroppo iniziata da tempo e una (scongiurabile) campagna elettorale burrascosa non ridurrà il deficit di speranza di tanta gente. Voteremo, allora, il 13 e 14 aprile, il nuovo Parlamento sarà convocato il 29 aprile, giornata inaugurale della sedicesima legislatura, mentre il futuro governo potrebbe essere varato a metà maggio. E cosa ne sarà del referendum popolare già indetto sulla legge elettorale in vigore? Sarà spostato di almeno un anno dopo le elezioni. Da febbraio a metà maggio. Tre mesi e mezzo di sosta sono un tempo incredibilmente lungo per un Paese con l’urgenza di riforme essenziali, in difficoltà sui mercati internazionali e nello scacchiere della politica mondiale. D’altra parte, però, era diventato logorante convivere ogni settimana con l’incombenza di una possibile frana al Senato, che avrebbe seppellito il governo, mantenuto in vita dalla ristretta cerchia dei senatori a vita. Prima il voto, poi la riforma Non ho riscontrato l’esistenza di una significativa maggioranza su una precisa ipotesi di riforma elettorale, ha commentato deluso Marini, registrando l’insuccesso del suo tentativo. Nel centrodestra ha prevalso, infatti, la linea del ricorso immediato alla consultazione elettorale. Forte, in quello schieramento, è la convinzione di poter vincere con sufficiente facilità anche a dispetto delle trappole di cui è disseminato il sistema elettorale del Senato. In buona sostanza, la posizione del centrodestra è riassunta in una frase: prima il voto e poi si parla di riforma elettorale. Nella certezza che più favorevoli rapporti di forza elettorale favoriranno scelte più rispondenti alle attese dello schieramento moderato. Staremo a vedere, perché se la coalizione guidata da Berlusconi non vincerà a mani basse, la distanza al Senato tra i due schieramenti resterà contenuta, forse anche ad una decina di seggi o poco più. Situazione, questa, che non aiuterebbe uno svolgimento completo e proficuo della prossima legislatura. La legge elettorale in vigore è considerata da molti esperti un vero disastro per numerosi limiti. Non ultimi quelli relativi all’abolizione del voto di preferenza, che sottrae agli elettori qualsiasi possibilità di scelta dei candidati e assicura alle segreterie dei partiti il pieno potere sulla composizione delle liste degli aspiranti parlamentari: solo i primi risulteranno eletti, agli altri il compito di fungere da specchietti per le allodole. La prevalenza della coalizione rispetto al programma è un’altra infausta conseguenza delle attuali regole del gioco. Abbiamo ripetutamente costatato come la necessità di dare vita ad un raggruppamento che potesse raccogliere oltre la metà dei voti finisse per creare un caravanserraglio di formazioni politiche con pochi tratti comuni e un’assicurata conflittualità. Le centinaia di pagine del programma del governo Prodi non sono state sufficienti a fungere da collante di una squadra che includeva tanto Dini, quanto Diliberto. La legge in vigore avrebbe dovuto ovviare con gli sbarramenti previsti (4 per cento fuori coalizione, 2 dentro) anche alla proliferazione di partitini, ma non è arrivata a tanto. Abbiamo dovuto assistere ad una vicenda che la dice lunga sulle esigenze di riforma: Marini, nel corso del suo mandato esplorativo, ha ricevuto 27 delegazioni di partiti e formazioni politiche. Un governo formato da 14 componenti, come abbiamo visto, è più impegnato a tenere compatta la coalizione che il Paese, non ha un effettivo programma e non custodisce un futuro. Ed è proprio quello che gli italiani non vogliono. Correre da soli Stante la legge non riformata, va registrata una novità. L’intenzione dichiarata da parte di Veltroni, leader del neonato Partito democratico, di correre da solo, nel tentativo di costruire una proposta politica definita e stagliata da presentare agli elettori come programma di governo, senza sottostare alle sfibranti mediazioni con altre componenti che finiscono per rendere vago il progetto per il Paese. Chissà se il segretario del Pd terrà fede a questo impegno. I sondaggi che circolano nella sede del suo partito non sono confortanti: se Veltroni va da solo alle urne, la coalizione di Berlusconi vincerà con oltre 2,5 milioni di voti di scarto. Può darsi che cambi idea in tutta fretta, ma resta un segnale di possibile cambiamento. Un partito e un programma: è quanto ha proposto al Cavaliere. Accetterà la sfida? Può risultare un invito ad un suicidio elettorale, ma potrebbe invece avviare un inedito processo di riflessione a vantaggio di tutti. Tra i due schieramenti torna a fare capolino il tentativo di aggregare un terzo polo. Tabacci e Baccini, usciti dall’Udc, hanno dato vita ad un organismo chiamato Rosa bianca, nome contestato per i suoi riferimenti storici al gruppo di giovani studenti tedeschi che si oppose, a costo della vita, ad Hitler. A partecipare al progetto è stato invitato anche Savino Pezzotta, già segretario della Cisl e uno dei due portavoce del Family day, che ha varato pochi mesi fa Officina 2007, luogo di riflessione politica. La stampa si chiede quale peso elettorale abbia effettivamente l’esponente cattolico, che potrebbe dar corpo al mai sopito desiderio di taluni ambienti di ricompattare politicamente la comunità ecclesiale per riguadagnare influenza nel Paese. Ma la diaspora dei cattolici in politica è ormai un dato acquisito anche a livello di gerarchia. Alcuni quotidiani hanno tirato in ballo Retinopera – organismo che raduna associazioni e movimenti di ispirazione cristiana sui temi della Dottrina sociale della Chiesa – quale possibile serbatoio di candidati e di voti per l’ipotesi del terzo polo. Chi conosce Retinopera (che include, tra gli altri, Acli e Mcl, Azione cattolica e focolarini, Sant’Egidio e Cl, scout Agesci e Rinnovamento nello Spirito) sa che è uno spazio di dialogo sui temi d’attualità tra differenziate sensibilità e tra percorsi associativi non riconducibili ad una scelta univoca di partito o di schieramento. Una legislatura costituente? Gli italiani si augurano che una legislatura sepolta dopo appena 22 mesi di vita costituisca una lezione sufficientemente severa per evitare insopportabili lungaggini nel cammino verso la riforma delle legge elettorale e di altre questioni cruciali. Dai sindacati alle categorie produttive è salita una perentoria richiesta: guardare alla prossima legislatura come ad una legislatura costituente. Un grande obbiettivo o l’ennesima chimera? Il tono e i contenuti della campagna elettorale ci forniranno adeguata risposta. Una campagna elettorale che, per la verità, non è mai finita e che non entusiasma la maggioranza dei cittadini. Il ricorso alle urne dovrebbe servire a voltare pagina, ma si guarda all’appuntamento senza soverchie illusioni. La Casta – che ha fornito materia per successi in libreria e argomenti per programmi televisivi – rischia di continuare a regnare sovrana. Difficile che questa prospettiva possa restituire una qualche speranza ai cittadini. Prodi non si ricandida per lasciare spazio a generazioni più giovani. La gente è grata per il nobile gesto e si auspica una folta schiera di emulatori. Infine, il cosiddetto election day. È un’idea tutt’altro che peregrina. Si potrebbe infatti votare in una sola data per decidere sia il governo del Paese, sia quello di una bella fetta di enti locali. Le prossime elezioni amministrative riguardano infatti tre regioni (Friuli Venezia-Giulia, Valle d’Aosta, Sicilia), tredici province (tra cui quella di Roma) e oltre 500 comuni. L’accorpamento consentirebbe un notevole risparmio per le casse dello Stato e ridurrebbe il numero dei giorni di chiusura delle scuole (non ce ne vogliano gli studenti). I critici sottolineano che troppe schede non favoriscono la partecipazione degli elettori e resta il pericolo che la coalizione vincente possa fare il pieno sia in Parlamento che nei consigli locali. L’astensionismo penalizzò nel 2001 l’Unione, ma è proprio dal centrosinistra che la proposta è stata rilanciata. Per attuarla, serve uno specifico decreto. Al momento in cui scriviamo, il dibattito resta ancora aperto e incerto l’esito. Resta vero, però, che l’idea di tutto in un solo giorno potrebbe costituire un segnale, piccolo quanto si vuole, ma un segnale di volontà di cambiamento per coinvolgere i cittadini – e prima di tutto chi fa esperienza associativa o è impegnato nel sociale – a partecipare in vari modi, come sottolineiamo ne Il Punto.

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